Shakespeare a San Vittore. Perché le donne raccontino e vedano se stesse.

immagine per Shakespeare a San VittoreOgnuno di noi custodisce ed evoca tempeste capaci, a volte, persino di travolgerci e spingerci al punto in cui ritrova incatenati, non nelle prigioni di isole di sogno, ma in quelle degli uomini.

Ed è in luoghi come questo che la voce di Shakespeare può ritornare a suonare con una forza che altrove gli è negata: quella della vita vissuta, con i suoi drammi e le sue sorprese.

In un luogo come il braccio femminile di San Vittore, il teatro può aprire spazi.

E se quelli che guardano all’esterno sono preclusi, sono senza confine quelli interiori.

Così le parole di testi come La Tempesta possono cancellare sbarre ancor più asfissianti di quelle che limitano lo sguardo di chi è detenuto: quelle con sé stessi, con la propria percezione di sé e del mondo.

Ed è questo il progetto di San Vittore Globe Theatre Atto II: Le Tempeste.

Lo avevano capito Giorgio Strehler e Eugenio Barba, che più di vent’anni fa sono entrati a San Vittore portando le parole di Shakespeare nel braccio maschile, e scovandovi nelle cucine un Otello che imparava il monologo affettando le cipolle, fino a che tutto il braccio lo aveva imparato e le lacrime, in ossequio a Stanislavskji, sono sgorgate da sole.

Quanto può il teatro lo sa ancora meglio Donatella Massimilla, che il bardo inglese lo porta, da molti anni, nel braccio femminile. E insieme a lui porta il teatro nell’unico carcere in Lombardia in cui il teatro non c’è. Porta gli specchi, là dove fino a pochi anni fa esistevano solo lamiere che costringevano a tagliare il volto e lo sguardo all’altezza degli occhi.

Oggi invece, quelle donne e ragazze possono specchiarsi.

Nel vetro e nelle parole, e trarre da sé nuove parole, che Shakespeare sa evocare. E che possono essere porte all’esterno. “Solo il vostro sguardo può estirpare il mio doppio”.

Frammenti di Shakespeare “danno aria alla scrittura”, all’autodrammaturgia delle detenute stesse. Ne sgorgano vissuti intensi, potenti, che prendono forma in parole anche di notevole qualità drammaturgica e letteraria.

Un valore che non è sfuggito a chi si fa alfiere del grande teatro milanese, a quel Piccolo Teatro che oggi accoglie gli spettacoli delle attrici detenute trasformando il Teatro Studio in San Vittore Globe Theatre.

Qui le donne sono chiamate a uscire dalla propria solitudine e chiusura, metaforica e concreta, e a esporre le proprie Tempeste.

Rovesciando il dettato Shakespeariano delle compagnie interamente maschili, sono Prospera, Calibana e le altre a prendere la scena.

È una Miranda “finita in carcere per amore”, a incarnare la ricerca d’amore di Miranda, indossando un vestito da sposa della regista, in un’autodrammaturgia che si riversa non solo su chi sta dentro ma anche su chi viene da fuori. Finché Dalia si spoglia dei panni di scena e si accorge che questo amore non le serve più. Finché Dana può trasformarsi in Ariel, Aria.
E con essa uscire, incorporea e libera, lei che era chiusa dentro.

Nello scambio tra il carcere e la città si realizza, spiega Massimilla, “il senso del teatro di comunità”, e da esso il teatro come lo intendeva Bertold Brecht, come “luogo di cambiamento”.

Capace di generare quella scintilla che prima, mentre sei spettatrice di un vecchio lavoro, come La casa di Bernarda Alba di Garcia Lorca, spinge a esserne parte. E poi a mettere in scena il te più autentico.

Anche quello in cui si riconosce Sabine, nata in un corpo sbagliato, eppure l’unico in cui si ostinava a riconoscerla chi avrebbe invece dovuto volerle bene.

Il teatro in carcere è il luogo ideale per raccogliere suggestioni.

Lo sa bene Susan, che crea i costumi con materiali ecosostenibili, di recupero, offrendo anche a loro una vita diversa, una nuova nascita da quello che erano stati. E offrendo – in un luogo che non prevedendo un teatro non prevede finzione – una seconda pelle a chi interpreta.
Con sensazioni, percezioni, odori diversi da quelli che il carcere restituisce.

Basta un solo elemento scenico, un vestito, delle corde, e il teatro si fa reale, e prende corpo una “poetica del cambiamento” in cui i “vissuti che si donano” cambiano tanto chi li racconta quanto chi li riceve.

È qui più che altrove che il teatro torna a essere ciò che etimologicamente è. Cioè l’unico luogo dove è davvero possibile vedere. Oltre.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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