Oggetti abitati dal tempo per raccontare l’uomo. La poesia di Montieri, Toscano, Orso a Pordenonelegge

immagine per pordenoneleggeCosa deve raccontare la poesia, se di dovere si può parlare?
Scoprendo le silogi di Anna Toscano, Gianni Montieri e Daniele Orso, a Pordenonelegge vien da rispondere: il mondo nei dettagli, nel quotidiano. Nelle Cose imperfette, come da titolo della raccolta del poeta campano edita Liberaria.

Un Imperfetto costitutivo o perfettibile? Come si chiede Carlo Selan. Forse entrambe. Le cose sono frammenti di alterità, ma d’altro canto è in questo che si trova la loro perfezione. Sono frammenti di esistenza luminosi e densi, quelli che Montieri apre «sulle persone, sulle cose che ci succedono mentre cose molto grandi accadono, sugli incontri».

Dove la luminosità non ha a che fare con una felicità posticcia ma con una salvifica nitidezza dello sguardo, che permette di aprire gli occhi su ciò che ci accade, anche e forse soprattutto quello che preferiremmo non vedere.

C’è Stefano Cucchi, nei versi di Montieri, ci sono i migranti, perché «tutto ci riguarda e tutto accade contemporaneamente», mentre la nostra si nutre d’amori e nostalgie, di paesaggi che cambiano per raggiungere il luogo dove sentirsi completi. Così, nella lingua tersa di Montieri «Si può raccontare il grande dal piccolo punto di vista delle nostre vite. Ci si dispera per il migrante ma d’altra parte si continua ad andare al cinema». <
Così tutto «resta imperfetto, il perfetto è il momento, ma è talmente piccolo che non lo è neppure quello».

Se Montieri accompagna il lettore dentro un non concluso, sui passi di ciò che ci accade, Anna Toscano sembra completare e rovesciare lo sguardo, forzandolo con raffinatezza e ironia verso la conclusione per definizione, la morte. E allora se – come vuole Gary – «l’ironia è la dichiarazione della superiorità dell’uomo su ciò che gli capita», ne Al buffet con la morte (La vita felice) la superiorità sta nel sedersi allo stesso tavolo con quella che Goliarda Sapienza – autrice amatissima da Toscano – chiamava la Certa.

La morte si accoglie, si osserva sorridere, ridere di noi. Si sceglie come pietosa compagna e porto di quiete dalla disperazione, si ignora forzatamente mentre si avvicina e ci coglie alle spalle, nel pieno di un gesto quotidiano, mentre prende la forma di un oggetto amato.

Guardandole a posteriori, le due raccolte si parlano e si completano. Ci sono autori e personaggi, conosciuti e sconosciuti, pubblici e amici. Ci sono gli scrittori, da cui si prendono a prestito parole e sguardi. Le poesie di Montieri e Toscano sono abitate da Borges, Giudici, Campo, oltre – appunto – a Goliarda Sapienza, trovata sul pianerottolo di casa quattro giorni dopo la sua morte.

Ma ci sono soprattutto gli oggetti, le cose che si fanno sineddoche di nostalgie e ne fanno tenerezza anziché disperazione. Ecco come «Si può raccontare il grande dal piccolo punto di vista delle nostre vite».
Trovandovi spazio in luoghi ancora più piccoli, i libri, dove la parola scritta e la poesia diventa «conforto d’assenza e luogo di altro incontro». in cui l’incomprensibile si rivela nelle azioni.

Inevitabile la – ormai abusata – analogia con l’Antologia di Spoon River, che tuttavia è imperfetta, perché a prendere voce non sono i morti, non è il rimpianto del dopo. L’obiettivo di Toscano è stato «collezionare negli anni poesie sul momento in cui il corpo rimane, come in fotografia: «una vivida immagine, una poesia che deve uscire in parole perché mi sta occupando la mente».

Anche di morte si parla  e si sorride per quanto entra nel proprio quotidiano, come la vita. E allora se – come scrive Nadia Terranova in postfazione a Toscano «Vivere è essenzialmente dirsi addio», Montieri sembra rispondere che vivere è anche dirsi mi manchi.

E ai molti vecchi corpi che popolano i versi di Toscano, consumati «sulla poltrona prediletta, quella della lettura, dei pensieri, delle conversazioni», per Montieri
Il cuore si è fermato
per un attimo quando ho pensato
che l’unico miracolo l’ultima
bellezza sarebbe il consumarmi
dentro una vecchia giacca
regalatami da te.

Immagini, come quelle da cui muovono le poesie di Daniele Orso. «Anche in questo caso la scintilla è fotografica, secondo l’esempio figurale – ineludibile, sostiene, per ogni poeta friulano di Mario Benedetti–», nel suo caso lo è espressamente, se è vero che ad esempio, intere porzioni della sua raccolta nascono come suggestioni derivanti «da una documentazione di casolari diroccati del Friuli», la sezione dedicata alla provincia è una didascalia alle foto di Luigi Ghirri.

Ancora una volta, è «il tempo trascorso che ci stava dietro  che volevo raccontare». Come negli oggetti di Montieri e Toscano, il paesaggio di Orso è solo apparentemente semplice. «ma nel paesaggio ciò che importa è il filo di fumo: raccontando il paesaggio raccontiamo l’uomo». L’uomo dentro il tempo e il suo fluire che trova ancora, nel verso, la propria misura.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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