Storia di Qu. Un compendio di Dario Fo e Franca Rame, utopisti senza tempo.

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Dario Fo - Storia di Qu

«Cosa aspettate a batterci le mani, a metter le bandiere sul balcone, sono arrivati i re dei ciarlatani, i veri guitti sopra il carrozzone…» Inizia con la storica “sigla” che apriva i lavori di Dario Fo e Franca Rame, Storia di Qu al Teatro Verdi di Milano. Ed è da tutto qui, nell’omaggio rivendicato a sipario appena aperto, perché la mano di Fo e Rame è quasi prepotente.

Non solo perché sono loro gli autori di questa messa in scena inedita di una storia che in realtà trae origine da un importante autore cinese, Lu Xiun, ma perché tutto collima, in modo esemplificativo per non dire didascalico, con quello che si è imparato a conoscere come il loro teatro. A partire dal protagonista. Qu, (con il suo assurdo soprannome, Randazzo che vale randagio) è un vagabondo, buffo, povero ed emarginato che si scopre eroe suo malgrado, vestito di toppe e rammendi: limpidamente, un Arlecchino d’Oriente.

Un guitto, appunto, naif e divertente come tale, che fa di una Cina surreale e colorata il contesto perfetto per una rivisitazione caratteristica della commedia dell’arte, con tanto di immancabile personaggio dell’amorosa: la ragazza chiamata Luna, che s’innamora di questo straccione diventato eroe suo malgrado, quando il capo dei ribelli al governatore gli fa dono del segno – una maschera da scimmia rossa – che li contraddistingue.

La riscoperta della tradizione – non a caso, nella messa in scena sono coinvolte due scuole, la Civica scuola Paolo Grassi per la produzione e l’Accademia di Brera per le scenografie – però, in questo caso ne abbraccia una seconda, quella cinese.

A sostenere l’allestimento una suggestiva e ricchissima scenografia, impreziosita da cinquanta disegni originali di Dario Fo, nelle sue cosuete esplosioni di colore, proiettati su veli di tela.

Efficace, sul piano della resa, la scelta di Massimo Navone di ridurre un testo per molti attori a un dialogo a due voci: al resto, in modo originale e visivamente di impatto, sopperisce tutto quel che ci si aspetta dal teatro cinese: ventagli, grandi ed elaborati pupazzi di carta tutti sbuffi e grandi marionette di legno e tela con le quali l’attore si fonde.

Il punto d’incontro tra i mondi è così quello delle forme, che dal teatro cinese classico alla compagnia di giro mantiene l’amore per il personaggio caratteristico, la danza che ironizza rispettosamente sul teatro di figura ma soprattutto la musica – il testo del teatro cinese classico era quasi interamente cantato – qui eseguita dal vivo da Roberto Dibitonto, fondendosi in una immersione nel teatro antico di due mondi, che trova nella giullarata caratteristica di Fo e Rame la sua perfetta sintesi.

E tuttavia, la storia dello sgangherato Qu (così lo definiscono le note di regia di Fo) non è soltanto un esercizio di cultura teatrale. Al contrario.
Come sempre per Franca e Dario, anche ora che restano soltanto le loro parole, il teatro esiste come racconto e criticizzazione del presente in forma scenica.

Qu, in questo senso, arrestato come capo dei ribelli, processato e condannato da un’autorità che lo sa innocente ma necessita di capri espiatori, è una gustosa satira sul potere e sulla sua natura grottesca, che non si risparmia i riferimenti diretti e lo svelamento della metafora in anacronistici eppure necessari riferimenti alla televisione e ai processi mediatici da un lato, e all’infiltrazione del potere nelle manifestazioni del dissenso dall’altro: lo strumento con il quale, da sempre, ogni potere condiziona gli umori della piazza fomentandone e poi distruggendone i martiri a proprio uso e consumo.

Veronica Franzosi e Luca Daddino, calati accuratamente negli stilemi con cui era stata pensata questa messa in scena offrono una interpretazione convincente per gli amanti del genere e per tutti si fanno strumento di quanto Dario Fo e Franca Rame sappiano ancora essere interpreti del presente, e siano ancora capaci, dall’alto di una cultura teatrale che si dimostra tale proprio perché mira sempre a farsi popolare, di indicare la strada.

Nella storia di un potere che diventa grottesca e crudele parodia di sé, il vincente resta il guitto, l’uomo della gente, il “comunardo utopico”, che però non è eroe per grazia ricevuta, ma cui l’amata offre l’arma più potente per fare la rivoluzione: vocabolario.

Nella favola amara e poetica dell’autore noto per aver inventato la scrittura cinese semplificata c’è anche questa lezione: per cogliere quanto il potere sia ridicolo e quindi sovvertirlo, non si può prescindere dal conoscere e maneggiare il linguaggio. La sola arma che può, con la sua sola forza, fare di uno straccione un eroe e rendere l’impossibile possibile.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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