Ogni forma espressiva, nel suo farsi storia stabilisce un canone, dal quale sovente esce tutto ciò che non risponde a un certo numero di parametri, tra cui generalmente rientra la riconoscibilità, la possibilità di definire esattamente la materia di cui ci si sta occupando.
Il canone inglese non può prescindere da Caryl Churchill, madre nobile di tutta la drammaturgia contemporanea britannica. Quello italiano invece, l’ha agilmente esclusa.
Per motivi di ordine tecnico, come il gran numero di interpreti necessari e la coralità dei suoi testi, ma viene da pensare soprattutto perché il lavoro di Churchill è a sé rispetto a qualsiasi possibile etichetta. Ne sfiora molte, come molti sono i temi che solleva, ma non si fa rinchiudere da nessuna.
Se questo lavoro può trovare quindi uno spazio non può essere altrimenti che dentro un contesto carbonaro come l’Angelo Mai il cui progetto culturale sembra aver trovato una eco naturale nel teatro Non normale non rassicurante – come da titolo del ciclo a lei dedicato – della drammaturga londinese.
Un progetto articolato di cui Caffettiera Blu, offre l’exemplum perfetto. Lo svolgersi della vicenda è riassumibile in pochi tratti: apparentemente, Derek è un quarantenne anonimo, inoffensivo, composto, al limite dell’insignificanza che, consapevole di essere stato adottato, è in cerca della madre biologica.
Quando però, scena dopo scena, si susseguono una lunga teoria di donne, la stonatura si fa evidente. E presto viene spiegata, quando è lo stesso protagonista a chiarire che questa ricerca non è altro che un espediente truffaldino per trarre dalla credulità di donne rose dai sensi di colpa quanti più soldi possibili.
Nell’ambiente fumoso di una scena stretta dal pubblico disposto su tutti i lati, apparentemente non c’è più niente da scoprire.
C’è da osservare la scomposizione di quella che siamo abituati a chiamare famiglia, mentre una dopo l’altra le sue possibili declinazioni sfilano davanti a un tavolo che è il solo orpello scenico, in confronti che appaiono piuttosto interrogatori a ciò che siamo.
C’è la donna che subito vuole essere parte della vita del figlio ritrovato e quella che non vuole saperne nulla. C’è chi è stata ragazza madre di un figlio che non aveva i mezzi per accudire e la donna in carriera la cui gravidanza è stato un incidente con un uomo importante. Tutti i volti arrivano sotto una luce che ne sfuma i confini. E – in un’intelligente espediente scenico dovuto alla costruzione dello spazio – nessuno può guardare negli occhi se non qualcuno dei personaggi.
Accanto a Derek una compagna, Enid, che lo sostiene e lo contrasta, lo protegge e lo smaschera senza fare davvero nessuna delle due cose. Specchio bifronte di chi osserva, sembra chiedere: e tu, da che parte stai? Nel frattempo lui sembra offrire a ciascuna delle donne che gli passano davanti la possibilità di una quiete, della chiusura di un cerchio, che però lo spettatore sa essere illusorio, di più, menzognero.
Come lo è l’intera costruzione. La regia scarna ed evocativa di Giorgina Pi sceglie infatti di renderlo autoevidente. Esplicita infatti le didascalie e le indicazioni sceniche, mentre i cambi d’abito sono protetti solo da un velo d’ombra, amplificando l’obiettivo a cui punta la drammaturga stessa: l’esplorazione del confine fra vero e falso, recita e vita, comprensione e inintellegibilità.
Presto infatti il dialogo si scompone e si sfarina in una declinazione delle parole «caffettiera blu», e con il procedere delle scene anche le parole si destrutturano (grazie a uno straordinario ed estremamente complesso lavoro di traduzione, firmato Laura Caretti e Margaret Rose) fino a non essere altro che suoni inarticolati.
Un virus che sembra corrompere e corrodere dall’interno lo svolgersi degli eventi tanto più l’inganno di Derek si fa evidente.
L’incomunicabilità che permea i rapporti umani diventa così manifesta, eppure mentre il testo vira sempre di più verso il teatro dell’assurdo non smette di parlare. Il significato di ciò che sta avvenendo resta infatti chiaro.
La differenza è che smette di essere univoco, per le diverse prospettive – di nuovo, eco nella disposizione fisica – da cui lo si ascolta.
Tanto più la menzogna si mostra, tanto meno le parole aiutano una lettura esatta degli avvenimenti, e il pubblico è invece pungolato verso la fame di dettagli morbosi che la vita di tutti giorni ha instillato nella società contemporanea.
L’ottima prova di tutti gli interpreti: Sylvia De Fanti, Gian Marco Di Lecce, Mauro Milone, Laura Pizzirani, Federica Santoro, Giulia Weber, avvolti dall’ambiente sonoro di Valerio Vigliar, esalta una pièce dove tutto è falso ma proprio per questo tutto è vero, nel modo straziante, schietto e impietoso che solo il grande teatro sa produrre.
Si disintegrano le vite e le identità come le parole. Ma è solo attraverso questa deflagrante esplosione che esse possono mostrare, nude, il loro cuore senza più spazio per essere fraintese.
Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.
Articolo interessante per l’analisi puntuale e rivelatrice. Sono rimasto con la curiosità di dove sia stato messo in scena – è un’informazione che sarebbe giusto inserire.
Gentile David, grazie del gentile commento. E anche della grazia con cui mi ha fatto notare di non essere stata – evidentemente – sufficientemente chiara sul luogo, cui ho però accennato. Approfitto per specificarlo: lo spettacolo, come tutto il progetto “Non normale, non rassicurante” dedicato a Caryl Churchill è andato e andrà in scena all’Angelo Mai, a Roma. Attualmente non so se troverà spazio, come mi auguro, anche altrove. Ma lo riferirò quando succederà