Farsi silenzio, per ascoltare e ascoltarsi.

Sacro, secondo l’etimologia, è ciò che è “separato”, secondo il vocabolario, ciò che è connesso al divino. Ma non esiste una definzione che sia davvero univoca per tutti, nel momento in cui si voglia provare a farla uscire dall’imbuto stretto dei dogmi di fede, cercandola invece in un oggi povero di certezze.

E allora, cos’è il sacro? Questo è il tipo di domande a cui il teatro cerca oggi di rispondere, per difendere la sua specificità. Così, il festival L’ultima l’una d’estate ha voluto dare spazio anche a questo interrogativo. Ma anche le modalità si rivelano fumose, complesse, come la risposta stessa.

Marco Cacciola ha scelto il viaggio. Zaino in spalla, partire da Torino verso Roma, per porre la domanda alle persone che incontrava. O piuttosto, che incontravano lui, come si è calamitati da chi sceglie un mezzo fuori dal tempo come i propri piedi.

Marco Cacciola

Camminare, in una teoria di paesaggi che cambiano e di volti, che alla domanda del camminatore, rispondono in modi diversi.

Sacro è spesso religione, inevitabilmente, anche dove non ce la si aspetta, tra gli scaffali e le pagine della Bibbia di un libraio rasta, ma è anche altro, nelle parole di Alcea, che cerca con occhi che non vedono e una lingua che non si decifra il suono dell’arcobaleno. E Isaac e la sua solitudine, il suo violino che trova quel suono in un accordo maggiore.

Sacro è il teatro, le parole di Antonio Tarantino, il maestro, che nel suo ritrovare il sacro nell’uomo nella sua dimensione più basilare suggerisce l’inizio del cammino e la strada da seguire: nelle stazioni, nelle vie secondarie. Dove la vita non ha sovrastrutture.

Marco cammina, ed è nel camminare che c’è lo spazio per Farsi silenzio. Ascoltare, cercare un silenzio assoluto impossibile, e farsi riempire le orecchie dal silenzio denso e pieno della vita che colpisce che da tempo alla realtà di lasciarsi scorrere addosso.

Quando si sceglie di assumersi il rischio del camminare, il momento del volo, della perdita di equilibrio e del coraggio di muovere il passo successivo, si incontra questo tipo di silenzio, che riempie le orecchie anche degli spettatori, attraverso le cuffie che, con l’aiuto del tecnico Marco Mantovani, portano la voce al contatto più stretto possibile con il corpo vivo: è così che Marco Cacciola racconta, porgendo a sussurri l’eleganza delle parole orchestrate insieme a Tindaro Granata, che ha curato la drammaturgia, ma soprattutto il silenzio.

Farsi Silenzio, foto di Lorenzo Ceva Valla

E in teatro, i 4 minuti e 33 che fanno eco a John Cage, sono il più grosso dei rischi. Che non si protegge con la finzione, per quanto verosimile, di un palcoscenico che non c’è, sostituito da un casale con pietre a vista e scale di legno, e dell’erba del cortile del museo etnografico di Bulciago, nel lecchese.

E così resta il verde del prato, il suono della pioggia, e il silenzio che si riempie di quello che accade intorno, mutando ogni volta, perché il cammino va compiuto, non soltanto immaginato, e quindi anche lo spazio scenico si sposta. E ciascuno nel silenzio trova la propria trama.

E non è importante cosa succede dopo, quando Marco si interrompe, nella Piacenza dove è nato. Non è importante se riparte, se arriva a Roma, quali incontri compie sulla strada, o invece se si ferma. E non è un finale mancato: è una nuova assunzione di rischio, che Cacciola sceglie. Di guardare negli occhi chi gli è di fronte, specchiando i propri fallimenti in quelli altrui, facendone lo strumento per ricostruire quella comunità che è l’altra specificità che il teatro garantisce, e per interrogarsi. Di sfidare ciascuno a cercare la propria risposta, ascoltandosi, nel farsi silenzio.

Ed è per questo che la ricerca – perché “questo non è uno spettacolo e forse non lo sarà mai”, di Marco Cacciola, coi suoi movimenti fluidi e le parole pesate e apparentemente istintive funziona: perché apre una domanda e non offre una risposta che semplifichi la ricerca.

Traccia un cammino di cui non si pone come guida ma come compagno di strada, e chiama ciascuno ad aggiungere (anche materialmente, nella memoria del registratore che ha portato con sé, il proprio personale punto di arrivo, perché si possa continuare un viaggio che non ha bisogno di artifici teatrali se non la capacità, e prima ancora la disponibilità, a raccontare, ma anche a non farsi afferrare dal bisogno di riempire di parole, lavorando anzi a togliere, a sommare silenzi che non potranno che essere nuovi e diversi.

Così questo lavoro riesce in quello che si augurava di saper fare Giorgio Gaber: buttare lì qualcosa e andare via. Lasciando, prima di tutto, la sfida di superare la paura del proprio silenzio. E allora forse, sacro potrebbe avere la definizione di prezioso, e per questo degno di ammirazione e gratitudine.

Se è così, sacro è il silenzio. Ma più ancora è sacro quello che si è vissuto. L’istante in cui ci si ritrova nell’occhio dell’altro, quell’istante di reciprocità che solo momenti nudi come quello verificatosi a Bulciago consentono di vivere. A patto di farsi silenzio.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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