Massimo Scognamiglio la fotografia e altre storie. Conversazione con l’autore

immagine per Massimo Scognamiglio

Massimo Scognamiglio (Roma, 1969), fotografo di moda e artista, lavora con l’immagine da sempre. Parte da fotografie da lui scattate con un taglio essenzialmente fashion, di singoli modelli e modelle in posa – in studio – ma subito scantonando dal puro glamour per aggiungere significati altri: intanto, riportando ad oggi la ritrattistica pittorica antica e quella della fotografia pionieristica; poi, spesso caricando la composizione di un carattere sfuggente.

Ciò aumenta quando le singole foto dei soggetti umani si affiancano – nella forma di dittici e di trittici – a quelle di paesaggi urbani o naturali. Cosa analizza Scognamiglio con questi suoi lavori? Chi sono esattamente i soggetti immortalati? Che età hanno? Da dove vengono? Chi e cosa desiderano? Cosa ci mostrano e cosa nascondono? Ci guardano o si fanno guardare? Dove si trovano? Perché sono sincronizzati proprio a quel paesaggio?

La rappresentazione è resa silente, la messa in scena discreta pur nella sua bellezza indiscutibile e il significato resta recondito.

Figure e paesaggi sono poggiati su un fondale – o forse vi sono contenuti – monocromatico neutro: un altro elemento da aggiungere alla formalizzazione della grammatica visiva e significante di Massimo Scognaliglio. Ma procediamo con ordine, dall’inizio…  da quando ha iniziato, giovanissimo, a interessarsi alla Fotografia…

Eri un bambino e il primo ricordo in questo senso risale alla Prima comunione: è così?

 “Rammento la macchina fotografica di mio nonno, una Voigtlander a telemetro del 1964: ne ero affascinato… Avrò avuto otto anni, o forse meno, e feci il mio primo autoritratto fotografico. Ce l’ho ancora…”

Una macchina che è parte della Storia della Fotografia…

“Sì, come tutte le macchine a telemetro che ti permettono di vedere ciò che è dentro e fuori l’inquadratura prima di scattare. Poi a mio padre, per il suo compleanno, regalarono una Olympus, una reflex, cambiava il paradigma, ora potevo comporre esattamente quello che era dentro l’inquadratura. Iniziai a scontrarmi con i limiti del mezzo rispetto alla mia fantasia e al mio desiderio di eternare quel che vedevo e a come lo vedevo…”

Ai limiti tecnici o ai tuoi di autodidatta, almeno all’inizio, a quella giovane età?

“Non direi limiti tecnici ma “vincoli” (sani “vincoli”) della macchina: avevo solo un 50 millimetri e quella fu la mia unica ottica per anni!”

Poi la tua formazione scolastica ha proseguito orientandosi verso studi specialistici?

“No, all’inizio no.  Ero bravo. Uscii dalle Medie con il massimo dei voti ma cambiai diverse scuole seguendo istinti diversi, prima di approdare alla Scuola di Cinema, dove trovo la mia… casa. Li imparo, nel corso di operatore cinematografico, ciò che ogni fotografo deve aver chiaro e dominare: Luce, Composizione e Linguaggio.”

Inizi a raccontare con la tua Fotografia, quindi, ma con una matrice cinematografica… le tue foto mantengono sempre un forte carattere narrativo…

“Sì, il linguaggio cinematografico è alla base della mia fotografia, e lo è proprio  nel mio pensiero: io penso, guardo, immagino per concatenazione di immagini, faccio un montaggio veloce quando osservo e così nasce il mio lavoro”

Non a caso, Massimo Scognamiglio imposta spessissimo le sue opere nella forma di dittici e trittici, anche quando non c’è un intento narrativo.

“Ad esempio nelle varie associazioni analogica delle inquadrature che mi interessano…”

Parliamo quindi del tuo nuovo progetto, di fatto quello che io reputo più maturo, totalmente afferente al linguaggio dell’Arte e assolutamente distante da quello della Moda dove lavori quotidianamente.
Spieghiamo meglio questo Tales of humans in a landscape (Racconti di umani in un paesaggio): tu metti insieme immagini differenti – sono tutte foto tue, scattate in tempi diversi e prese da vari contesti – montandole, in forma di dittici e trittici, su uno stesso fondo cromatico, particolarmente poco saturo, che assume il senso e un effetto acromatico, neutro…

Parliamo subito del colore, che ha una ragion d’essere: è come una cornice che non necessariamente chiude ma che evidenzia.

“Il colore arriva immediatamente; stimola sensazioni non codificate. Seduce, anche, perché no?”

Mi hanno ricordato certi colori innaturali, stratificati… Nulla a che fare con una scelta… grafica…

“Assolutamente. Un grande frame che inquadra le immagini, una vibrazione che fissa e fa osservare meglio quelle due (o tre, in caso di trittico) fotografie, che le evidenzia.”

Quanto in generale, è importante, per te, il colore? Al di là del linguaggio fotografico, intendo…

“Ti rispondo dicendoti che un autore che amo moltissimo è Mark Rothko. C’è tutto nei suoi lavori: una complessità, una densità nella semplicità apparente del colore.”

Apparentemente semplicità, dici bene: nel senso che è dato per strato su strato, con minimi scarti cromatici, quasi impalpabili, per creare un effetto visivo d’immaterialità…

“Mi perdo nel suo colore, nelle sue vibrazioni: vedi che ritorna il termine e il concetto?”

Mi viene in mente uno stralcio della lettera-Manifesto, pubblicato nel “New York Times” nel giugno 1943, a firma anche proprio di Rothko: “siamo a favore dell’espressione semplice del pensiero complesso. (…) Vogliamo riaffermare il piano dell’immagine. Siamo per le forme piatte perché distruggono l’illusione e rivelano la verità”. Quindi scegli il colore come forma piatta su cui si poggia l’immagine figurativa – fotografica – evitando l’illusionismo e cercando l’essenzialità che, secondo te, evidenzia, mette in luce…?

“Le sue parole mi confortano moltissimo, me ne sento figlio.”

Quindi non c’è anche una componente simbolica o psicologica, nella scelta e nell’uso di un colore o di un altro? Nulla di empatico da rintracciarvi?

“È come una terza immagine, più sottile…”

Ci vedo, anche, una sottrazione retinica: come tu avessi messo la sordina al colore, una dose in più di bianco non per rendere tutto luminoso ma… più silente.

“Deve evidenziare non concentrare su di sé l’attenzione, lo sguardo dell’osservatore, in questo è sicuramente silente”

La Fotografia funziona magnificamente da sola; se ci aggiungi qualcos’altro, qualcosa di esterno, come questa base cromatica di fondo, attutita ma comunque che si nota, deve essere capace di direzionare lo sguardo su di sé solo per poi portarlo sulle foto, giusto?

“L’infinito è presente in tutto, quindi anche in uno spazio delimitato. Di una foto, di una tela; in questo caso di foto e del loro fondo esterno colorato. Ho comunque fiducia assoluta nell’inquadratura fotografica, ma quel colore rappresenta un argine tra ciò che è dentro e ciò che non lo è e non deve distrarre, disturbare. ”

Mi hai fatto pensare a Ettore Spalletti, alla sua luce intellettuale, alla rarefazione, all’infinito, al suo tipo di colore. Imparagonabili le due ricerche ma un colore che talvolta somiglia al tuo…

“Onoratissimo. Spalletti è un artista che amo molto. Un altro maestro anche nel colore. Le sue opere sono molto concentrate e riescono quindi a non farti mai distrarre: ci sei dentro… La sua visione concettualistica è potente. La Fotografia, diversamente, a suo modo, è altrettanto concettualistica. La mia fotografia lo è”

Ecco, la Fotografia.
Anche se la titolazione del progetto – di fatto una serie su cui l’artista lavora e lavorerà a lungo – è Tales, Racconti, il racconto non c’è. In realtà gli uomini non sono nel paesaggio ma affiancati al paesaggio: senza una storia iniziale…

“Sì, un racconto senza una trama. Tales, i Racconti, sono una possibilità di costruzione che lascio a chi guarda… in questo penso ai racconti senza storia dei film più concettuali di Andy Warhol: “Empire”, “Sleep”, “Kiss””

La costruzione di un filo logico, quindi, è negli occhi e nella testa di chi guarda, che  ci proietta porta la propria esperienza, sensibilità, cultura, interiorità, il proprio umore…; e non è un caso che tales sia al plurale…: tanti racconti diversi per quanti individui fruiscono dell’opera; e talvolta la stessa persona può supporre – immaginare – più storie diverse… Vedo, però, che l’associazione tra immagini diverse, che siano in bianco&nero o a colori, ha un suo rigore: una piega dell’abito dell’uno, ad esempio, rimanda a una crepa del paesaggio accanto; la forma di un bagliore negli occhi al bagliore di un vetro riflesso… È come se il gioco dell’affiancamento procedesse per giustapposizioni, somiglianze, analogie, anche di piccoli particolari, talvolta insignificanti, e sempre estetici, formali… Mi sbaglio?

“Corretto. La narrazione rigida, come ti dicevo, non esiste, ma pur qualcosa di misterioso lega una foto all’altra: si tratta di minime corrispondenze, di… vibrazioni…  Non è mai una scelta meramente estetica. È qualcosa di più profondo, inesprimibile a parole. Spesso le cose si allineano tra loro. Io vedo e metto insieme l’essere umano, rappresentato fotograficamente, e qualcos’altro: il qualcos’altro è il Paesaggio, sia naturale, sia urbano, sia culturale, sia una Natura morta… non cambia nulla. Tutto ciò che sta all’esterno dell’interiorità umana.”

Quindi tra essere umano raffigurato e ciò che gli metti accanto c’è una sorta di…  vibrazione sulle stesse corde… che però tu non spieghi: nulla di didascalico ma, semmai, un processo di riconoscimento e affiancamento e dunque di narrazione, evocativo…

“Questo è il criterio, sì…”

È evidente che usando un colore extrafotografico, seppure non dipinto a mano, con pennelli e spatolate, ma reso graficamente, si rimanda sempre e comunque al linguaggio pittorico, al suo specifico… Non solo: c’è monocromo – del colore, appunto – e c’è figurazione – nella fotografia – e dunque anche in questo caso sembra che Scognamiglio giochi sulle dualità, come fa nell’affiancamento delle diverse immagini fotografiche tra loro in un unico quadro… Così, gliene chiedo ragione…

“Mi interessa mettere elementi diversi all’interno di una stessa composizione: ognuno separatamente ha un suo senso, una sua pienezza e completezza; ma così riportati ne acquistano di sempre nuovi… Anche l’analisi della fotografia e della pittura, quindi… sì…, è vero.
Un’altra mia ossessione sono gli spazi di Francis Bacon, le sue stanze…”

…ecco che ritroviamo la pittura! Nel caso di Bacon, però, essa è un corpo a corpo con l’abisso umano; e quelle sue stanze – di cui semmai nelle tue strutture compositive c’è solo un riverbero – avevano un carattere drammatico, come fossero stanze ideali che accentuavano il senso di isolamento dei soggetti in esse inquadrati… Invece, non vedo drammaticità nei tuoi soggetti, che sembrano quasi ieratici…

“Noi sappiamo istintivamente che pur non vedendole, le emozioni umane ci sono, c’è una dinamica psicologica interiore… Le mie stanze sono spazi dell’accadimento, finestre su una possibile realtà…”

…una nessuna e centomila, direi: quindi, ancora una volta ci consegni un mistero, l’ineffabile, l’indecifrabile…

“Lascio a chi guarda il compito di decifrare… considerando che sto sempre trattando dell’umanità. La mia poetica ruota sempre e comunque intorno alla centralità dell’essere umano.”

Ultima domanda: come fotografo professionista lavori con molta gente, su set, in esterne, in ambiti redazionali…; come artista – che usa la fotografia – sei invece più… solitario: come coniughi i due aspetti?

“Una situazione non esclude necessariamente l’altra. Ti dirò, anche, che sto pensando seriamente a mettere su qualcosa che mi colleghi ancora di più agli altri, che alimenti sinergie…”

A che pensi, a una sorta di incubatore di idee – come si dice oggi – e di visioni?

“Più o meno, sì. Penso a qualcosa di piccolo, gestibile, e autentico, simile a un laboratorio creativo e del pensiero, studio d’artista però aperto e volto alla collaborazione….”

…insomma: un luogo di scambio e incontro delle arti?

“…e delle persone!.”

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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