Regina Josè Galindo artista pasionaria che non se ne lava le mani – Lavarse las manos e cuestiones de estado

Lavarse las Manos - Regina José Galindo 2019, veduta della mostra, audio, abiti e fotografia da performance, cm 225x150 - commissionata e prodotta da Real Academia de España en Roma e Centro Cultural Español en Guatemala- photo: Jacopo Tomassini

Lavarse las manos di Regina Josè Galindo curata da Federica La Paglia è una mostra che nessuno dovrebbe o avrebbe dovuto perdere, perché regala al pubblico la possibilità di farsi attore del e nell’attraversamento espositivo-esperienziale, in qualcosa, quindi, di immersivo ed empaticamente rilevante che connette – mettendo in equilibrio perfetto – specifici diversi, più riflessioni e rivelazioni.

Troviamo, in questa personale e nell’intera ricerca dell’artista, attenzione al sociale, impegno etico, afflato politico, denuncia sulla devianza del Capitalismo e del Potere dominante, accuse afferenti alle questioni di genere e tanto altro ancora: tutto riassunto nel linguaggio dell’Arte.

Come in quasi in tutto il lavoro dell’artista guatemalteca (Città del Guatemala, 1974), alla quale è stato assegnato il Leone d’Oro come Migliore Giovane Artista alla 51. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia (2005),  il percorso che l’ha portata a questa importante, intensa nuova produzione romana, quindi la sua preparazione e l’attraversamento complesso che ha dato corpo e anima a tutta l’esposizione, fa parte dell’opera stessa ed è fondamentale per capire l’autenticità della sua concettualità e della connessa formalizzazione.

Entrando alla Real Academia de España en Roma, dopo una fondamentale spiegazione di ciò che si andrà a vedere e che si potrà fare – tramite un corposo, competente testo critico della La Paglia, una brochure e un pannello esplicativo –, si inizia con una concreta lavata di mani: la piccola fontana nel cortile dell’Accademia nel complesso di San Pietro in Montoro, è stata riattivata ad hoc e trasformata in una prima partecipazione in cui l’artista accoglie l’altro, il pubblico, che, pur non entrando nel processo creativo, lo attiva e lo sostanzia. Da quest’atto reale oltre che simbolico del Lavarse las manos, con cui la Galindo chiede un gesto di consapevolezza – “La storia siamo noi…”, nessuno se ne può sentire estraneo, deresponsabilizzato –, prende il via l’esperienza che ognuno può fare attraverso le tappe stabilite dalla Galindo; queste hanno una premessa in una performance e proseguono nella mostra, anch’essa con una sua lenta preparazione che, abbiamo detto, entra nelle opere.

Eccole: diverse foto a grandezza naturale ognuna con una donna, in piedi, vestita dei propri abiti tradizionali, monili compresi, tutto molto colorato; ma non c’è luce nel volto di chi li indossa: qui si sta trattando della Donna, della sua condizione nel mondo, del suo essere costretta a migrare, a rifugiarsi, reagendo a iniquità e abusi. Si scopre, dopo una prima osservazione, che il soggetto immortalato – 4 persone, in 4 sale distinte – è sempre la Galindo, che entra letteralmente nei panni di alcune donne rifugiate in Italia e nelle loro storie, differenti ma simili nel dolore e nelle loro battaglie, che loro raccontano nella rispettiva lingua madre – evitando un’arbitrarietà che sempre è nella traduzione – e che sentiamo nell’audio ambientale di ogni sala.

A ogni sala corrisponde quindi una voce, un’opera, una storia di donna della quale è omesso il nome e dati biografici sia per restituire qualcosa di più assoluto, sia – come ci chiarisce la curatrice – “per non mettere in pericolo loro e i familiari e gli amici rimasti nei loro diversi paesi d’origine”. Ma nonostante la non identificazione, ciascuna delle quattro testimonianza è vera, concretissima ed è rivissuta dalla Galindo a suo modo; con la performance di lei ferma, immobile, davanti a ogni immagine; con le foto; con l’installazione site specific: ai piedi delle rispettive immagini, per terra, sono ammucchiate quelle stesse vesti indossate e di cui la Galindo si è infine spogliata; questi capi d’abbigliamento sono stati amorevolmente a lei consegnati da queste donne con cui l’artista e la curatrice sono entrate in relazione – grazie a Mediatori Culturali: figure-chiave che assicurano una intermediazione dolce che garantisce ognuna delle parti – ascoltando ogni singola storia amara, con una compresenza di toni a volte rabbiosi, altri dolenti, altri rotti dall’emozione, e sempre fieri… L’audio fa parte dell’ambientazione e in esso si percepiscono i diversi stati d’animo nella rievocazione di ogni racconto; immaginiamo il carattere di queste donne, le fasi terribili affrontate nella loro vita.

“La storia troppo spesso si scrive sul corpo delle donne”, dice la Galindo e sottolinea la curatrice.

Ma non c’è interesse a mostrare la vittima, il debole, la sua angoscia, quanto, piuttosto, l’energia di chi ha agito per la propria sopravvivenza, per il proprio riscatto. Le quattro donne, e la Galindo con loro, contraddicono lo stereotipo del povero migrante mostrando la realtà di chi ha lottato nel suo paese d’origine, denunciando corruzione interna e ingerenze e occupazioni esterne, e per questo attivismo e questa ribellione è dovuto scappare giungendo infine a Roma dalla Costa d’Avorio, dal Congo, dalla Somalia e dal Kurdistan: dimostrando con i fatti la correità dell’Occidente, del cosiddetto Primo Mondo che ha saccheggiato, spadroneggiato, sopraffatto e continua a farlo. Chi vive nel privilegio non comprende quale sia il prezzo: che paga, però, qualcun altro, altri popoli.

La poetica della Galindo è di quelle dure, senza reticenza: un’investigazione sulle conseguenze della violenza, della prevaricazione e degli abusi del Potere, dell’ingiustizia sociale, della mancanza di parità, tra patriarcato e maschilismo, delle aberrazioni del Capitalismo, delle discriminazione di genere e di razza, delle violazioni dei diritti umani e di un certo disprezzo culturale molto imperialista.

Tutto dal di dentro: in quanto donna e attivista, a partire dal Guatemala, lei sa bene di cosa sta parlando e cosa sta mostrando, perché è similmente riproposto in ogni Paese in guerra, in conflitti interni e/o con dittature esplicite o meno. La Galindo ne è consapevole e ce lo restituisce anche sulla sua pelle: ogni suo lavoro gravita, infatti, intorno all’uso del proprio corpo; anche in questo caso. Sempre, la sua opera “agisce per modificare la visione eurocentrica dell’altro – continua Federica La Paglia – e considera l’essere umano da una prospettiva di decolonizzazione”, quella più giusta e sana, evidentemente.

La mostra, che non è commercializzabile, è bellissima: bellissima e disturbante; squarcia un velo che in molti non vedono o fingono di non vedere; e non tratta solo di quelle storie e di quelle donne ma di tutti noi, in qualche modo e misura; non solo dei loro Paesi, dunque, ma anche dei nostri; per tacer del Guatemala, oggi sempre più rischioso per chi lotta per l’uguaglianza, per la libertà, per i propri e gli altrui diritti, soprattutto se si è donne in un Paese dove oggi è davvero un azzardo alzare la testa; la Galindo ha raccontato spesso della sua paura per i suoi cari e i suoi connazionali – per lei ne ha meno, anche per la sua notorietà internazionale, guadagnatasi sul campo – per via del suo attivismo nella sua terra e fuori; e quest’esperienza a Roma, l’incontro e la relazione profonda con queste donne altrettanto a rischio ma indomite, che hanno “trasgredito alle regole”, le ha dato – racconta la Galindo attraverso le parole di Federica La Paglia, “una nuova forza, un’energia positiva e propositiva per proseguire nelle sue battaglie socio-politico-culturali che lei porta avanti anche e soprattutto attraverso la sua arte”, radicale o più evocativa, performativa ma non solo, e anche con la sua poesia, dato che l’artista è anche poetessa.

Lavarse las manos è una parte di un più ampio progetto intitolato cuestiones de estado (che  gioca sul doppio senso Affari di Stato e condizione umana) che nasce a partire dalla Residenza dell’artista all’Accademia di Spagna a Roma (luglio 2019) e pone un’attenzione ampia e articolata sulla tematica della migrazione con tutto ciò che ad essa è correlato. Promosso dal Ministero degli Affari Esteri, dell’Unione Europea e Cooperazione di Spagna, dal Centro Culturale di Spagna in Guatemala e dalla Real Academia de España en Roma. Avendo avuto un grande successo di pubblico e tra gli addetti-ai-lavori, nonché una eco mediatica anche per la sua efficacia nella denuncia non certo sottintesa dei misfatti socio-politici ed economici perpetrati da alcuni Paesi sugli altri, è stata protratta, nella sua sede romana, sino a domenica 23  febbraio 2020. Il progetto prosegue altrove, con varie declinazioni.

 

Info

  • Real Academia de España en Roma,
  • Piazza di S. Pietro in Montorio, 3, 00153 Roma
  • Telefono: 06 581 2806
  • www.accademiaspagna.org

 

 

 

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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