Un patrimonio artistico senza.
Italia, ecco ragioni, problemi e soluzioni.
Intervista a Bruno Zanardi

Pompei, esempio di degrado del Sito archeologico
Pompei, esempio di degrado del Sito archeologico

Un restauratore conosce davvero dal di dentro i pregi e i difetti dei Beni Culturali, specialmente se è italiano o lavora in Italia e quindi si misura ogni giorno con i disastri e qualche eccellenza all’interno del nostro ampio patrimonio artistico. Così, Bruno Zanardi, uno specialista dalla lunga carriera (*), si è cimentato in questo tentativo: raccontare l’enorme confusione e il sempre più grave ritardo culturale in questo campo e l’arretratezza in cui giacciono – incolpevole la maggior parte dei più preparati professionisti di settore, colpevoli gabelle istituzionali, complicazioni e incompetenze ministeriali e politiche governative – restauro, conservazione e tutela oggi nel nostro martoriato Paese.

L’autore, nel suo Un patrimonio artistico senza (Skira, Milano, 2013) denuncia il basso livello generale dell’apparato formativo del settore, la sua sempiterna crisi che ha comportato e comporta, per esempio, restauri frettolosi, talvolta inutili, altre in ritardo cronico… A ciò si aggiunge un disastro sotto gli occhi di tutti: cementificazione selvaggia e becero sfruttamento del territorio. condito – aggiungiamo noi – da insani condoni edilizi su condoni edilizi. Poi, per esempio, quando una chiesa crolla durante piogge torrenziali, dar la colpa al clima anomalo è sin troppo facile, come lo è tacere del degrado in cui essa era stata lasciata e della violenza fatta al paesaggio in cui essa era allocata… Sembra impossibile quanto sia lontano un progetto anche minimo di- necessaria collaborazione – ormai imprescindibile, come giustamente predica da anni il geologo e divulgatore Mario Tozzi e come ci dimostrano le continue tragedie italiche stagionali – tra Ministeri dei Beni Culturali, dell’Università e soprattutto dell’Ambiente, per tacer di quella con la ricerca scientifica dell’industria…

Insomma, lontanissimi i tempi di Brandi e Argan – che sono stati ormai rottamati nei fatti e nei misfatti -, la tutela dei nostri Beni Culturali manca di un piano organico, globale e preventivo di tutto il Patrimonio artistico, come ricordava – tuonando! – anche Federico Zeri; siamo, invece, sin troppo pieni di tardive corse ai ripari per questa parte di sito archeologico, quel quadro, quelle mura… mentre Pompei ed Ercolano, per esempio, crollano in attesa di un organica riqualificazione totale (anche dall’assalto di bancarelle e orribili negoziacci di souvenir e di pessimi ristoranti che l’accerchiano…). Se mi si passa la metafora, insomma, si tamponano i problemi cercando il pelo nell’uovo ma si omettono politiche per tutto il gallinaio, anzi per l’aia intera…

Chiediamo direttamente all’autore se questo è vero o meno… Più specificamente: sembra quasi che in Italia la tutela sia – secondo la definizione di Massimo Severo Giannini – “attività facoltativa”…
Andiamo con ordine e iniziamo dalla rottamazione

Bruno, dettagliaci sui rottamati: Argan, Brandi, Zevi e Spadolini…

“Più precisamente, nel libro scrivo che Argan e Brandi negli anni ’30 del Novecento svolgono un ruolo positivo nell’ambito della tutela: la promulgazione del corpo di leggi del 1939, legge 1089 in primis, e la fondazione nel 1941 dell’Istituto centrale del restauro. Meno sicuro sono invece della positività del ruolo svolto da Bruno Zevi, assente negli anni ’30 dall’Italia per sfuggire alle leggi razziali, ma che nel 1945 torna e subito sostiene nel suo (anche) «Manifesto dell’Architettura Organica» che il nuovo costruito non dovrà avere rapporto alcuno con il «vecchio», soprattutto con l’architettura monumentale. Una posizione nata dal suo ben fondato odio per il fascismo, da lui esteso alla monumentalità dell’architettura di quegli anni. In quest’ultimo caso, però, odio non altrettanto ben fondato, perché guardando oggi come è andata per l’architettura in Italia negli ultimi settant’anni, avercene di Colossei quadrati e Città universitaria di Roma, come di architetti con la consapevolezza storica e la qualità progettuale di Marcello Piacentini o di Giuseppe Pagano.”

Quindi da rottamare sarebbero?

 “Gli epifenomeni. I professori universitari e i soprintendenti che ancora oggi fanno vangelo delle parole dette dai tre cinquanta, sessanta o settanta anni fa in un’Italia che non c’è più. L’Italia che ha pagato il rapidissimo passaggio da arcaico paese agricolo a economia industriale tra le più avanzate del mondo con il formarsi di una questione ambientale, il cui primo frutto maturo è l’alluvione di Firenze del 1966. Un disastro che ha coinvolto non più delle singole opere, ma l’insieme di patrimonio artistico e città, a dimostrazione definitiva che è dall’ambiente che vengono tutti danni conservativi del patrimonio artistico, ovviamente fatti salvi, e sono molti, quelli provocati dai restauri sbagliati…”

Infatti tu citi casi di restauri incredibili. Braccia tagliate con la fiamma ossidrica, endoscopie fatte fare da uno “spurgo fogne”, soprintendenti che restaurano loro, fumando, gli affreschi, una signora che scrive a Salvatore Settis di ragazzi messi a lavare sculture romaniche con sostanze misteriose che le facevano diventare come di gesso, l’ennesimo e inutile restauro dei Bronzi di Riace, la squallida copia del Marco Aurelio e chi più ne ha più ne metta…

 “Purtroppo questa è la realtà media di molti dei restauri italiani, anche perché affidati non per merito, ma per vittoria a gare al maggior ribasso cui sono ammesse a partecipare anche le imprese edili. Un vero e proprio disastro. Ciò detto va aggiunto che ci sono però anche molti bravissimi restauratori. Faccio un solo esempio, Eugénie Knight che, in barba a nome e cognome, è napoletana.”

Torniamo però agli epifenomeni di Argan e gli altri.

“Il problema è che fanno ancora oggi vangelo di parole dette da persone che vivevano, appunto Argan &c., in un’Italia intatta dal punto di vista socio-ambientale e con un’organizzazione dello Stato fortemente centralizzata, quella del re e del duce, e dove il nuovo costruito era una piccola percentuale dell’esistente, mentre oggi rappresenta i 4/5 del totale, con gli effetti su paesaggio urbano, agrario e naturale sotto gli occhi di tutti. Così da essere divenuti, in grazia a quel loro così grave ritardo culturale (ancora gli epifenomeni), un forte ostacolo per l’attuazione d’una qualsiasi razionale, efficiente e efficace politica di tutela. Professori e soprintendenti che, ormai con i capelli bianchi, ancora pateticamente si presentano come allievi di Argan o di Brandi o di Zevi, perché privi in proprio d’una qualsiasi idea di quale sia il senso della presenza del passato nel mondo d’oggi. Gli argano-brandiani e gli zeviani di professione. Quelli che, così facendo, negano in solido la profonda verità del cimento cui chiamava i suoi allievi della Normale il più grande filologo del Novecento, Giorgio Pasquali, dicendo loro:
“I professori vanno mangiati in salsa piccante dai loro propri allievi”.”.

 Mentre Spadolini?

 “Spadolini è stato uno dei principali fabbri del disastro dei beni culturali, perché strutturalmente incapace di comprendere l’utilità d’una innovazione del settore, utilità non solo per la salvaguardia del nostro patrimonio storico e artistico, ma anche per l’attrazione d’interessi internazionali che quell’innovazione avrebbe recato all’Italia quando questa fosse divenuta automatico e insuperabile crocevia di tutti i paesi del mondo circa i problemi attinenti restauro, conservazione e tutela. In parte perché l’assai sopravvalutato uomo politico fiorentino aveva una percezione provinciale e men che dilettantesca del problema. Basti la sua imbarazzante (a dir poco) definizione dei beni culturali, peraltro da tutti in quegli anni servilmente citata come fosse il parto delle menti, insieme, di Talete e Pitagora: «I beni culturali sono un bus, quello giusto, per l’utopia». In altra parte, e soprattutto, perché egli intendeva fare di quel così speciale Ministero, non uno strumento per il bene del nostro patrimonio artistico e dell’Italia, bensì per il suo. Vedendolo come il grimaldello per potersi schiudere un’importante carriera istituzionale. Quella che avrà, contribuendo per la propria parte a costruire la disgraziata Italia d’oggi.”

Quindi Spadolini ha fondato un Ministero… come?

“Un Ministero sbagliato. Infatti un Ministero che non volevano grandi tecnici, come Pasquale Rotondi e Giovanni Urbani, allora direttore e vicedirettore dell’Icr, e che non volevano grandi giuristi, come Massimo Severo Gianni, padre del diritto amministrativo dell’Italia repubblicana. Tutti loro chiedendo che, al posto del Ministero, di cui, facili profeti, prevedevano un’involuzione burocratica, quel che è avvenuto producendo una completa ingovernabilità del sistema, venisse creata una “Agenzia dei beni culturali”, come aveva anche chiesto la Commissione Franceschini sullo stato del patrimonio artistico italiano (1964-66). Dove il pregio dell’Agenzia, come scriverà anni dopo Giannini, era che le si sarebbe potuto affidare tutta un’attività di carattere non pubblicistico con cui farla agire. In tal modo si sarebbe ottenuta una struttura molto agile. Come un grandissimo ufficio per l’organizzazione e il controllo della tutela, che per l’azione avrebbe potuto utilizzare strumenti di diritto privato, cioè applicare il Codice civile. E questo sarebbe stato un grande vantaggio.”

Quindi ci stai suggerendo che il Mibac sia un Ministero… sbagliato?

“Proprio così. Un Ministero che trova epigrafe incancellabile nella definizione che ne diede nello stesso 1975 della sua istituzione uno dei grandi giuristi italiani d’oggi, e non solo, Sabino Cassese. All’incirca, cito a memoria:

“Il neonato Mibac è una scatola vuota. Il provvedimento legislativo della sua costituzione non indica una politica nuova, non contiene una riforma della legislazione di tutela. Si riduce a un mero trasferimento degli uffici della vecchia Direzione generale antichità e belle arti (fino a quel momento, ma in seno al Ministero della pubblica istruzione, punto di riferimento delle politiche di tutela nel Paese) in nuovi uffici. E non si vede [ancora oggi, aggiungo io], perché uffici che non funzionavano nella vecchia sede dovrebbero funzionare in quella nuova”.

Un giudizio impietoso, ma di straordinaria pertinenza, che nell’implicito ribadire l’amministrazione di tutela ferma al 1939 di Argan, Brandi e Bottai, e al 1945 di Zevi, già diceva tutto (con una quarantina d’anni d’anticipo) sulle ragioni per le quali quel Ministero sia oggi in via di liquidazione.”

 Vincoli, notifiche, furti e errori: illuminaci… Prima hai detto che professori universitari e soprintendenti, perché ancora immersi nella cultura di tutela di Argan e Brandi del 1939, e di Zevi del 1945, sono un forte ostacolo per la tutela stessa. In che senso?

“Facciamo un caso concreto. Prendiamo i vincoli, le notifiche, i divieti e tutte le altre limitazioni d’uso con cui si fa tutela oggi. Una lunga serie di azioni puntiformi in negativo con cui si perseguitano i privati proprietari, perché nelle leggi del 1939 il patrimonio in mano pubblica veniva dato per autotutelato forse nel nome (beati loro!) dello “Stato etico fascista”. Azioni in negativo la cui inutilità è sotto gli occhi di tutti, visto che in nessun modo hanno fermata la dissennata cementificazione del Paese, così come pochissimo le esportazioni clandestine delle opere d’arte.”

Mi pare di capire che tu saresti, quindi, favorevole all’abolizione di vincoli e notifiche?

“Assolutamente no. Vorrei anzi potenziare vincoli e notifiche. Quel che si può fare solo dando loro un senso opposto a quello di oggi. Non più azioni in negativo, come poteva essere nell’intatta Italia del 1939, che servono solo a mummificare la cosa notificata, facendola così uscire dagli interessi vitali dell’Italia e degli italiani. Ma azioni in positivo, quindi condivise, così da far entrare la tutela in quel “piano della società” dove davvero si decidono i destini di paesaggio e patrimonio artistico. Un risultato che si può ottenere facendo di vincoli e notifiche strumenti strategici d’un’unica e coerente e condivisa strategia di tutela del patrimonio artistico nel suo insieme. Un insieme che è somma di quanto è proprietà privata e di quello in proprietà pubblica.”

 Secondo questo ragionamento, in particolare per tavole, tele, sculture, eccetera cosa si dovrebbe fare?

 “Smettere di praticare l’inutile sport di correre dietro ai ladri. Secondo te, si può nel 2013 pensare di combattere con dei vincoli l’uscita – ogni giorno, per 365 giorni all’anno – delle migliaia di Tir stipati di materiale di tutti i generi che le frontiere italiane varcano, per cercare quelli che portano clandestinamente reperti archeologico o quadri? Oppure impedire agli yacht di sbarcare dove e quando vogliono? Di invadere per il capolavoro sconosciuto, posto ancora ce ne sia qualcuno?!”

Per sventare questi enormi pericoli, che sono quasi all’ordine del giorno in Italia, cosa dovrebbe fare, allora, lo Stato italiano?

“Dovrebbe innanzitutto smettere di perseguitare i privati proprietari, ad esempio favorendo in ogni modo la defiscalizzazione di restauri acquisti e vendite, nella consapevolezza che le collezioni, nel breve o nel lungo periodo, tendono sempre a rientrare in proprietà pubblica. Pensiamo al ruolo del tutto positivo esercitato non solo dai privati proprietari, ma addirittura dagli antiquari per la salvezza di opere d’arte e monumenti importantissimi, così come per la promozione di studi storico artistici di grande valore. Si pensi a figure come quelle di Stefano Bardini e Alessandro Contini Bonacossi a Firenze, o a quella di Elia Volpi a Città di Castello.”

 Dopo di ché?

 “Dopo di ché lo Stato italiano dovrebbe finalmente portarsi quale compratore corretto e puntuale di opere d’arte, investendo nell’impresa qualche milione di euro ogni anno. Come fanno gli altri paesi dell’Occidente, la Francia, ad esempio, che da sempre acquista sul mercato i dipinti, le sculture e quant’altro possa interessare ai suoi musei. Opinioni, quella appena dette, che sono state prima di Giovanni Urbani e di Federico Zeri, che mie.”

Posizione però rischiosa, questa. Zeri e Urbani non erano infatti i tecnici dei correnti Consigli superiori delle Antichità e Belle Arti o Beni Culturali che siano. A differenza dei primi, i nostri consiglieri spesso non sanno riconoscere il Monte Bianco da Monte Mario. Tanto che due o tre anni fa hanno fatto comperare allo Stato italiano per 3 milioni di euro un piccolo Crocefisso dicendolo di Michelangelo assai, assai chiacchierato, per usare un eufemismo…: mi sbaglio?

“Una mingherlina statuetta lignea seriale intagliata in una bottega fiorentina di fine Quattrocento. Un acquisto, prima che dilettantesco, ridicolo, perché con 3 milioni di euro una scultura vera di Michelangelo te la fanno sì e no vedere da lontano. Un danno d’immagine del Paese e un danno economico all’Erario che, chi lo avesse recato a un’industria privata, riceveva il giorno dopo una lettera di licenziamento in tronco e una richiesta di risarcimento. Mentre da noi nulla è successo. I soprintendenti sono ancora tutti lì e tutti nel Consiglio superiore. Con la vana indignazione di quel piccolo-grande eroe civile che è Tomaso Montanari, cioè chi questo scandalo ha denunciato.”

Denunciando anche, Tomaso Montanari, i furti di preziosissimi libri antichi in biblioteche pubbliche, quella dei Girolamini, a Napoli, ad esempio, commessi – se non erro – da un tale Massimo De Caro, Consigliere culturale di vari Ministri dei Beni Culturali, Galan, Ornaghi eccetera. Una vicenda (http://espresso.repubblica.it/attualita/2013/10/24/news/saccheggio-biblioteca-dei-girolamini-continua-la-caccia-ai-libri-rubati-1.138956) che ha messo l’Italia alla berlina in tutto il mondo…

“Né è la prima di queste vicende. Il Consiglio superiore, ad esempio, già negli anni ’70 aveva fatto acquistare dallo Stato, tramite gli allora membri di quello stesso Consiglio Argan e Brandi, molto sollecitati dal loro collega Cesare Gnudi (almeno così mi raccontò lo stesso Brandi), una Madonna col bambino di metà Cinquecento, attribuendola addirittura a Raffaello: in realtà una mediocrissima tavoletta senese di metà Cinquecento, una crosticina. Con grasse risate di scherno di Federico Zeri. Le stesse risate fatte dal grande Federico quando Argan prese per capolavori della scultura i falsi Modigliani fatti per scherzo da due ragazzi di Livorno col Black & Decker per poi buttarli in uno dei canali della città che in quel momento si stavano dragando dando retta alla leggenda locale di sculture gettate lì dallo stesso Modigliani prima di andare a Parigi. Perfino insistendo in televisione, sempre Argan, davanti ai rei confessi, e basiti buontemponi livornesi, che essi mentivano e che quelle ridicole faccette erano, invece, due autentici capolavori dell’artista italiano.”.

Urbani e Zeri risultano bene, nel tuo libro, come tuoi maestri il cui impegno civile e la cui dottrina scientifica si percepisce in molte pagine…
Ora però vorrei tornare ai vincoli. Dici di non volerli abolire, bensì potenziare. Per i dipinti, le sculture e il materiale archeologico il modo ce l’hai detto. Mentre per il patrimonio immobiliare come si fa?

“Di nuovo operando in stretta sintonia con i proprietari privati, visto che inestricabile è in Italia rapporto tra beni privati e pubblici. Quel che è in particolare vero per i beni immobili, quindi chiese, palazzi o semplici edifici storici, dove la distinzione tra pubblico e privato diventa del tutto inessenziale quando finalmente ci si decidesse a far valere quei beni come traguardi o punti fissi per la messa a fuoco di qualsiasi disegno di pianificazione urbanistica, territoriale o paesistica¬, come dei criteri per le «valutazioni di impatto ambientale». Una cosa che sempre Urbani diceva.”

I centri storici nella gabbia dello storicismo…

“Sono perfettamente d’accordo. Penso al costante vedere in tutt’Italia palazzi, chiese, oratori e quant’altro edificio storico confinati dentro a delle rotonde stradali, oppure assediati da condomini, villette, crescent, piramidi e tutte le altre nefandezze fuori scala e proporzione rispetto al paesaggio urbano storico dell’architettura d’oggi. Il contorno di squallidi edifici speculativi da periferia del terzo mondo che umilia e soffoca la meravigliosa Villa dei Mostri di Bagheria, per fare un esempio a tutti noto.”

Non solo…

“Non solo, perché laddove la politica dei vincoli e delle notifiche è stata estesa a un contesto urbano ben delimitato, ovviamente penso ai centri storici, l’effetto di quei vincoli è stata la diminuzione di tre quarti degli abitanti e delle attività commerciali. In pratica una desertificazione. Avvenuta nella quarantina d’anni che separano l’oggi dal 1972, quando la materia urbanistica è passata alle Regioni e i centri storici sono divenuti oggetto dell’interesse di urbanisti, architetti restauratori, assessori regionali e sindaci i quali, non avendo la minima idea di come intervenire in quel problema, hanno tutti insieme pensato di risolverlo museificando i centri storici, con l’effetto appena detto. Una vicenda che ci riporta al ritardo culturale delle scuole di architettura e urbanistica, come alla troppo spesso inanità della politica a affrontare problemi tecnici e organizzativi, specie quando di natura culturale. Ma anche una vicenda che rimette in vista una volta di più le ragioni d’una celebre frase di Alexis de Tocqueville:
«On ne s’attache qu’à ce qui est vivant».”.

Quindi, dando retta a Tocqueville, per salvare i centri storici bisogna farli tornare vivi: un tema e una proposta che è forte, nel tuo libro; dici che per ottenere quel risultato occorre rapidamente uscire dalla loro attuale museificazione, per renderli invece abitabili secondo gli standard di oggi. Bene: ma come?

 “Piegare distribuzione e dimensione delle case nei centri storici e dei loro appartamenti a quelle nuove esigenze abitative. Come sempre è storicamente avvenuto in quei particolari organismi viventi che sono le città. Nel caso, si tratta di prendere atto che in Italia lavorano anche architetti in grado di progettare entro i centri storici – pur se da punti di vista tra loro molto distanti – nuove architetture eleganti, intelligenti e civili, inoltre abitabili secondo gli standard d’oggi. Penso per tutti all’intervento di Renzo Piano al porto vecchio di Genova, ma anche alle architetture di Mario Botta, Franco Stella, Michele De Lucchi o Pier Carlo Bontempi, per fare solo alcuni nomi. Grandi architetti che dovranno fare da maestri ai giovani architetti, oggi in gran parte disoccupati perché troppi e molto spesso impreparati.”

Un tema, i 250.000 circa architetti laureati oggi in Italia (150.00 iscritti all’Ordine) in corsi di laurea che non prevedono – in Italia! – come fondamentali esami di storia dell’arte antica, medievale e moderna, tema a me caro e su cui anche tu e non solo tu, per fortuna, molto insisti nel libro.

“Infatti. Dimmi tu se è possibile progettare – sempre in Italia! – il nuovo senza avere come punto di traguardo la città storica!”

Oh, non solo è stato ed è possibile – in un Paese dove la Storia dell’Arte è considerata, nei Ministeri dei Beni Culturali, secondaria quando non da abolire -, ma è una norma, hainoi. Il risultato nefasto sono le tante orrende periferie delle città e la devastazione del paesaggio con ville, villette, case, casine e condomini, tanti condomini da saccheggio speculativo: di Palermo, per esempio… e penso al sacco di Vito Ciancimino (http://it.wikipedia.org/wiki/Vito_Ciancimino). Inoltre, a aggiungere fiele al veleno, spesso edifici abusivi. Altro tema sul quale fai luce nella tua pubblicazione.

“Infatti. Ma non tutto è così. Si tratta di distinguere il grano dal loglio e di prendere atto di come, nonostante la diffusa mediocrità culturale e progettuale di molte delle scuole di architettura, in Italia esistano anche architetti, l’ho appena detto, in grado di spiegare ai giovani che nei contesti urbani e paesaggistici storici l’architettura non si fa con i gesti agitati, volgari e in fine assurdi, le appena citate torri alte centinaia di metri, i crescent, le nuvole, il verde verticale e così via farneticando e truffando. Quelli che non credo avrebbe voluto nemmeno Bruno Zevi, il cui veto di collegare il nuovo costruito alla città storica è all’origine di questo gran casino. Si tratta invece d’intervenire con piccole, efficaci, prudenti e eleganti modificazioni dell’esistente. Modificazioni ottenute con forme, materiali, proporzioni del nuovo e distribuzione urbanistica perfettamente compatibili con l’esistente. Quando ciò accadesse – un esempio potrebbero essere gli edifici ricostruiti in Germania, penso in particolare a Norimberga, in sostituzione di quelli rasi al suolo dai bombardamenti della seconda guerra mondiale – inevitabilmente si avrebbe un rilancio dell’abitabilità dei centri storici, con essa, della progettazione architettonica, come della ricerca scientifica in nuovi materiali e nuove tecnologie da parte dell’industria edile, chiedendole progettisti, committenti e enti di controllo, in particolare i Comuni, di finalmente riconvertirsi dal cemento al mattone; conversione tanto inedita, nella cementificatissima Italia d’oggi, quanto sempre più urgente. E sarebbe un buon lavoro, perché gratificante e creativo, per i giovani tecnologi, architetti, ingegneri, oggi invece umiliati a lavorare nei call center.”

Ma così si viola uno dei grandi tabù di tutte le moderne teorie del restauro, quella di Brandi in primis: sostituire il vecchio col nuovo, cioè fare dei falsi.

 “Diciamo allora subito che, per Brandi, lo dice lui, il falso presuppone il dolo. E parlare di dolo per interventi che sarebbero documentati in ogni loro minimo particolare mi pare quanto meno improprio. Inoltre, qualcuno dovrà prima poi chiedersi se lo storicismo in cui si è voluto rinchiudere il passato sia una gabbia claustrofobica, oppure un fattore evolutivo. Fare d’una città un documento storico immodificabile significa farla vivere o farla morire? Un quesito, questo appena detto, che per i centri storici trova risposta nella seconda delle due opzioni, almeno stando al dato appena citato della diminuzione in quarant’anni di tre quarti dei loro abitanti e attività commerciali. Un ben chiaro e acuto campanello d’allarme, che sembra tuttavia suonare nell’indifferenza generale. Dove, a pensar male, può essere che quell’indifferenza altro non sia che l’attesa pelosa per potere tra qualche anno buttar giù tutto e sostituirlo con i soliti condomini nelle odierne e appena dette varianti di crescent, mervilles, verde verticale, nuvole e tutte le altre farneticazioni in architettese sempre più spesso irresponsabilmente applaudite, non solo nelle riviste specializzate, ma anche nelle pagine culturali dei quotidiani. Irresponsabilmente, perché nessuno si rende conto della pericolosità di simili posizioni per la conservazione del patrimonio storico e artistico.
Pagine culturali dei quotidiani e censure…”

 …che tu nel libro stigmatizzi.

 “Pensa che, dopo aver scritto per una quindicina d’anni sul “Sole24Ore”, non solo nel domenicale, ma nel quotidiano, anche in prima pagina, mi hanno licenziato non rispondendo più alle mie e mail e telefonate. Riferendomi, “voci di corridoio”, che la mia testa era stata chiesta dal Ministero perché scrivevo articoli troppo critici. E loro gliel’hanno data. Senza batter ciglio e in quel modo.”.

Ma anche cita il “Corriere della Sera”, dove Quintavalle fa un reportage sul terremoto dell’Umbria del 1997, facendo pubblicare come suo simbolo la foto di un affresco dell’Alunno squarciato dall’alto al basso da una lacuna, detta da Quintavalle causata dal terremoto, in realtà una tinta neutra di restauro realizzata in un intervento condotto una decina di anni prima del 1997.

“Lì i casi sono due. O Quintavalle s’è accorto che non si trattava d’un danno da terremoto, ma l’immagine era efficace quindi l’ha pubblicata lo stesso, ingannando i lettori del quotidiano, come il suo giornale. Oppure l’esperto circa i problemi di tutela del principale quotidiano italiano, appunto Quintavalle, non sa riconoscere una tinta neutra di restauro da un danno da terremoto. Cosa, quest’ultima, di cui non mi stupirei essendo il nostro tra i fondatori di quegli autentici “truffifici” che sono i corsi di laurea in conservazione dei beni culturali. Corsi-truffa dove s’insegna poco o nulla circa la conservazione del patrimonio artistico, ma che in compenso hanno dato grande potere universitario in cattedre e incarichi ai professori che cinicamente li hanno promossi. Fregandosene bellamente, sempre quei professori, il nostro tra loro, d’aver in quel modo rovinato la giovinezza a decine di migliaia di giovani italiani, che a quei corsi si sono iscritti in perfetta buonafede, cioè mai più pensando che stavano per essere truffati dallo Stato. Altra vicenda che se fosse avvenuta in un Paese civile sarebbe costata al nostro e suoi compagni di merenda l’espulsione da tutte le Università, oltre che qualche processo per danni da parte degli studenti. Ma me ne faccia dire un’altra di queste vicende, anch’essa esemplare, pur se circa un diverso genere.”

La dica…

“Un mese fa “la Repubblica” dedica la sua intera pagina centrale a un testo che Jean Clair avrebbe letto il giorno dopo alla Fondazione Zeri, a Bologna…”

…tra parentesi, anche della Fondazione Zeri lei non dà un giudizio esaltante…

“Sì, ma ne parliamo dopo. Nel testo di “la Repubblica” il critico francese rivolgeva sacrosante critiche all’arte contemporanea, dicendola non arte, ma pura e casuale decorazione, ossia stanca trovata d’effetto, ovvero ancora, nel migliore dei casi, critica d’arte…”.

Su questo fermamente dissento… come su molte scelte e analisi di Clair…

“…proseguo…: un paio di anni fa ho pubblicato un volume in cui, con Raffaele La Capria e Giorgio Agamben, abbiamo raccolto una vasta antologia di quanto Giovanni Urbani aveva scritto sull’arte contemporanea a cavallo degli anni 50-60 del secolo scorso (Per un’archeologia del presente, Skira, Milano), in cui diceva, ma mezzo secolo prima, le stesse cose dette da Jean Clair nel pezzo su “la Repubblica”; inoltre ponendo in campo Urbani – di nuovo, lo sottolineo, mezzo secolo fa – un enorme problema di tutela di cui nessuno mai parla e sul quale si sta (anche) giocando la sopravvivenza stessa dell’arte del passato. Il terribile scontro tra passato e presente. Il sempre più evidente rischio d’un effetto domino dell’arte d’oggi su quella del passato. L’avvento dell’Angelo della Storia di Benjamin.”

Mi puoi citare qualcosa di questi ignoti testi di Urbani?

“Ti cito la chiusa del suo ultimo articolo, uscito nel 1964. Un testo strettamente heideggeriano, filosofo le cui opere Urbani aveva studiato quando in Italia non solo non le leggeva nessuno, ma non erano quasi tradotte, ma anche un testo dove egli anticipava temi del Foucault di Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, uscito nel 1966 e tradotto in Italia, come mi fa piacere ricordare, dal mio amico e collega Giovanni Bogliolo, buon Rettore dell’Università di Urbino perché ancora faceva molta attenzione al tema della meritocrazia, concetto oggi non più di moda nell’Università italiana, quindi anche a Urbino. Ma così Urbani:
“Resta la possibilità che la finta storia dell’arte contemporanea, così rapida e zelante nel seguire passo passo il suo finto percorso, arrivi all’ultima tappa e riesca a vedersi come sicuramente apparirà un giorno: un’immensa pagina grigia, una lunghissima parentesi in cui lo strepito e il furore dei suoi mille finti eventi si ricompongono nella compattezza sorda e indifferenziata d’uno strato archelogico. Questo strato che è il presente; umano e vero solo se si riuscirà a «scavarlo», se si riuscirà cioè a fare terra delle sue illusioni e a disseppellirne gli stupidi idoli come povere suppellettili da cui, caduto il mito, resti con la polvere e indistruttibile come essa, la traccia di ciò che realmente siamo”.”

Passiamo avanti…: come va a finire con “Repubblica”?

“Mando il libro a un noto giornalista culturale (si fa per dire…) del quotidiano romano, non ricevo risposta. Sollecito e, a quel punto, lui mi scrive all’incirca che “il libro è per me troppo difficile da leggere, quindi non lo recensisco”. Dove va benissimo che il nostro non sia in grado di leggere i libri, anche se forse dovrebbe fare un mestiere diverso da quello che fa, ma rende incomprensibile le ragioni per cui il quotidiano romano ha dato due pagine a Jean Clair, zero a Urbani, il quale ha scritto, torno a dire, mezzo secolo prima le stesse cose. Evidentemente, quel giornalista non aveva la preparazione sufficiente per cogliere l’importanza d’una riscoperta del lavoro di Urbani in quella direzione. Quel che in particolare vale per “l’in più” della sua così nuova e inascoltata e fondamentale riflessione sul tanto fragile quanto strategicamente decisivo rapporto tra arte del passato e arte d’oggi. Né mostrando, sempre il solito giornalista, rispetto alcuno per Urbani che, amico personale di Giuliano Briganti, Eugenio Scalfari, Nello Ajello o Corrado Augias, per anni aveva scritto su quel quotidiano.”

… e ora, tornando al tuo non esaltante giudizio sulla Fondazione Zeri…?

“La Fondazione Zeri dell’Università di Bologna ha senz’altro il merito d’aver catalogato e messo in rete la leggendaria fototeca del grande storico dell’arte romano, fondamentale suo strumento di lavoro. Trovo invece intollerabile, soprattutto per chi lo ha a lungo frequentato, che la Fondazione ne tradisca il pensiero.”

In che modo?

“Nel 2009 la Fondazione Zeri organizza una mostra, Le foto di Federico Zeri, il cui intento è illustrare per «episodi esemplari» (così si legge nel catalogo) il metodo scientifico e la produzione saggistica del grande storico dell’arte romano. Ebbene, incredibilmente (ma non troppo, visti i tempi in cui si vive), nella mostra si provvede a censurare due dei decisivi «episodi esemplari» alla base della vita stessa di studioso di Zeri. Una Fondazione che censura ex post il pensiero dello studioso cui è essa stessa dedicata! Un fatto non si sa se più incredibile o grottesco.”.

Censura  esercitata come?

“In primo luogo, negando la centralità della Roma antica, medievale e moderna nel suo disegno del formarsi e del divenire stesso della storia dell’arte italiana. Nel caso, non facendo cenno alcuno nella mostra e nel catalogo all’incrollabile convinzione del grande storico dell’arte (sua, come di Offner, Meiss, White, Sauerländer, cioè di studiosi d’indiscussa caratura internazionale quale forse unico in Italia fu nel secondo Novecento Zeri, dato evidentemente sfuggito alla Fondazione), che le «Storie di San Francesco» di Assisi, il ciclo di affreschi da cui nasce la moderna lingua, naturalistica, della civiltà figurativa dell’Occidente, non siano opera di Giotto, bensì d’un pittore romano. Convinzione critica più volte espressa in scritto e in conferenze, a partire dal 1957, fino alla fine della sua vita: ad esempio, la lapidaria chiusa d’una lettera che lo stesso Zeri mi scrive il 3 aprile 1995:
“Non solo non credo che il Maestro d’Isacco sia Giotto, ma non credo che G. abbia a che fare con gli affreschi della Vita di San Francesco. Giotto ad Assisi è altrove”.”

 L’altro episodio esemplare del metodo di Zeri di cui non si fa menzione in mostra e catalogo?

“Riguarda la mancata tutela del patrimonio artistico da parte dello Stato italiano, argomento che, specie negli ultimi anni della sua vita, fu per Zeri interesse quasi esclusivo. Come se per i membri della Fondazione Zeri curatori di mostra e catalogo la radicatissima convinzione di Zeri che non sia Giotto l’autore del Ciclo francescano e la sua appassionata denuncia civile sullo stato comatoso del nostro patrimonio storico e artistico fossero, la prima, solo un paradosso polemico, la seconda, l’ubbìa d’un povero vecchio in un paese dove la tutela funziona perfettamente. Ed è facile immaginare il Grande Federico che, da Erebo o, più probabilmente, da Eliso, lancia tutte le sue coloratissime minacce sessuali e i suoi altrettanto coloratissimi anatemi scatologici verso chi ha osato così gravemente tradirne la fiducia e offenderne e insultarne la memoria.”

Ma i soprintendenti? E l’Aquila? Pompei? E la Valorizzazione? E l’Istituto Centrale del Restauro?

“A conclusione di questa lunga rassegna dei problemi che affliggono il nostro patrimonio storico e artistico – problemi, se mi si passi la metafora, che si tamponano cercando il pelo nell’uovo, contemporaneamente omettendo politiche per tutto il gallinaio, anzi per l’aia intera; bastino, per la storia dell’arte e il restauro, le due lettere che pubblico, rispettivamente di Salvatore Settis e Tomaso Montanari…”

…ora faccio alcune domande secche, tutte provocate dalla lettura del tuo libro tanto stimolante. Prima domanda: dei soprintendenti italiani è possibile salvarne qualcuno, oppure no?

“Diciamo tre cose. Una, che il problema dei soprintendenti nasce all’Università, dove poco o nulla si sa – e s’insegna – di diverso dalla cultura del 1939 su restauro, conservazione e tutela. La seconda è che i soprintendenti lavorano da sempre nella più completa assenza di una politica di tutela fondata su programmi razionali e coerenti. Così che per loro, far tutela diviene un “fatto facoltativo”, come ha scritto anni fa Massimo Severo Giannini, un fatto di personale sentimento. Così c’è chi la fa e chi no, chi la fa nel modo A, chi nel modo B, chi in quello C, senza che nessuno dica loro nulla…”

La terza è che la politica ha mano libera in moltissime nomine…?

“La terza è che la carica quasi mai viene da indubitabili competenze tecniche attestate da lavori di ricerca, restauri condotti con le proprie mani e bibliografie originali, ma dalle scelte di correnti e  partitiche. Il soprintendente infatti spesso serve a dislocare risorse, favori, permessi e così via, ovvero a negarli.”

Esempi?

“Te ne faccio due. Uno, virtuoso, Gino Famiglietti, soprintendente del Molise, ha ricevuto lettere con minacce di morte da parte della camorra che voleva riempire di pale eoliche il sito archeologico di Sepino, come lui ha impedito accadesse. Un eroe borghese, insomma. L’altro, non virtuoso, Renée Codello, soprintendente di Venezia, che da anni non fa nulla per impedire il passaggio delle navi da crociera dentro la città, tanto da essere stata denunciata da Italia Nostra perché avrebbe violato gli artt. 10 e 28 del Codice dei beni culturali: questo, almeno, si legge nel sito internet di Settis e alcuni suoi collaboratori, come Donata Levi e Denise La Monica, patrimoniosos. Qui siamo di fronte al contrario di un eroe borghese. A una signora totalmente sorda ai problemi della cultura, alla violenza che simili inaudite presenze, le navi, appunto, fanno alla quiete, al rispetto e al culto che si devono alla città di Venezia; come sorda ai suoi doveri d’Istituto, cioè ai danni conservativi che quei passaggi, nel loro esercitare sulle fondamenta dei palazzi una forza di spostamento un simile a un evento calamitoso, producono al patrimonio storico e artistico della città. Ma siamo anche di fronte a una signora, sempre la Codello, perfettamente in linea con la politica italiana, che infatti non la rimuove dall’incarico, come invece dovrebbe se davvero avesse violato il Codice. Nel caso, in perfetta sintonia con il ministro Lupi, che ho sentito nei giorni scorsi esprimersi in televisione con un gergo da lupanare contro dei giudici che volevano vedere se un suo amico aveva rubato dei soldi pubblici e che, per le navi da crociera a Venezia, subito ha agitato lo spettro di 3000 posti lavoro che si perderebbero a non far passare più le navi per i canali di Venezia. Tutto questo mentre mezzo mondo ride dell’Italia e dei suoi organi politici e tecnici per quest’altra incredibile, ma vera, vicenda.”

Seconda domanda. Cosa succede all’Aquila?

“L’Aquila conferma la completa e scandalosa impreparazione di Ministero, Icr e Scuole universitarie a affrontare un problema come quello dei terremoti, quasi le rovine a monumenti, opere e case prodotte da eventi sismici si verificassero in Italia con cadenza plurisecolare e non, come è, con tragica cadenza di più o meno breve o brevissimo periodo. Tanto che, dopo quattro anni, siamo ancora a chiederci cosa fare su monumenti e case: all’Aquila, come a Modena e Ferrara, anch’esse vittime nel 2012 d’un terremoto grave quanto il primo. Se un museificante restauro storicistico argano-brandiano, se una ricostruzione com’era dov’era, se con inserzioni moderne, eccetera, come se monumenti, case e cittadini aquilani e modenesi possano aspettare a tempo indefinito soluzioni ricostruttive, di restauro e non, che una comunità scientifica che davvero possa dirsi tale dovrebbe essere in grado di dare in tempo reale. Unica buona notizia è che il soprintendente regionale Fabrizio Magani qualche mese fa ha molto opportunamente apposto alla città dell’Aquila e ai paesi contermini colpiti dal terremoto del 2009 un vincolo di inedificabilità. Vincolo apposto per proteggere il cratere dell’Aquila dalle mire della speculazione edilizia, quelle rese possibili, appunto, dalla completa e scandalosa impreparazione di Ministero, Icr e Scuole universitarie a affrontare il problema dei terremoti, come ho appena detto.”

Siamo però sempre alla cultura vincolista…

 “L’unica che le soprintendenze conoscono, oltre a quella dei restauri estetici more Argan e Brandi (e Longhi) 1938/39. Cultura vincolistica benemerita così come applicata da Magani, perché va detto che, talvolta, anche i vincoli solo in negativo servono. Ma cultura vincolistica che, per la sostanziale casualità e, spesso, contraddittorietà con cui viene applicata, finisce spesso per essere insensata, così da autorizzare tutte le scuse per abbandonare a sé stessa la città storica. Quel che spiega la costruzione delle new towns dell’Aquila, gli anonimi palazzoni a tutti noti, messi in piedi in qualche mese perché eretti in zone della città prive di vincoli. Una vicenda, le new towns dell’Aquila, da non sottovalutare perché possibile prova generale di quel che si vorrebbe fare nell’Italia intera proprio a causa dell’ideologica e dilettantesca tutela vincolistica dei centri storici. Da una parte, continuare a costruire nei modi d’oggi le attuali periferie prive di storia, quindi di qualsiasi “effetto città”; dall’altra, abbandonare a se stessi i centri storici perché immodificabili in grazia dei soliti vincoli, fino a quando questi non cadano da soli, così da potere, a quel punto, ricostruirli con new towns in forma di nuvole, verde verticale, torri e altre simili boutades tanto ideologiche quanto insensate. Ovviamente salvando le chiese e i palazzi monumentali più importanti, ma isolandoli entro il nuovo costruito, quindi perdendone il senso storico.”

Quindi si va verso un’antologizzazione del patrimonio storico e artistico?

 “Questa credo sia la tendenza. A meno che qualcuno – un Governo o Ministro, se non è chieder troppo da parte di chi paga le tasse – finalmente si decida a fare una politica dei beni culturali. Né sottovalutando la forza d’inerzia delle culture storiche, che sembra maggiore di quanto speculazione edilizia e politica centrale avessero previsto, vista la ribellione dei cittadini aquilani a questo colpo di mano. Ma senza mai dimenticare come, a lato di tutto ciò, ci siano trent’anni di televisione commerciale, cioè grandi fratelli, balletti di donne col culo in vista, presentatori frutto di chirurgia plastica, talk sow dove vince chi urla di più, la cultura che certamente molto ha influito al far perdere di vista ai giovani la loro stessa umanità.”

Terza domanda. Pompei ed Ercolano crollano in attesa di un’organica riqualificazione, oltre che di essere protette dall’assalto di bancarelle e orribili negoziacci di souvenir e di pessimi ristoranti che l’accerchiano…

“Pompei è perfetta metafora di quello che si è detto finora. Dell’immenso ritardo culturale accumulato dal settore della tutela. Basti che a fronte dello sfacelo del sito, quello reso ancora più evidente dalle condizioni di contorno di cui hai appena detto, bancarelle, ristoranti, guide turistiche e a stampa, ecc., saldamente in mano alla camorra, a fronte di questo sfacelo la soprintendenza ha proposto di condurre un ennesimo restauro critico e estetico di tre celebri domus, spendendo lì tutti o quasi i cospicui finanziamenti dati, mi pare, dell’Unesco. Non capendo, quei soprintendenti, che il patrimonio artistico del Paese sta morendo anche perché si continua a identificare la tutela con il restauro argano-brandiano 1938/39, senza rendersi conto che i restauri estetici ogni volta limano il colore, perdendone le parti più delicate. Per fare un esempio fuori da Pompei, le opere di Caravaggio pulite a ogni mostra, che stanno gradualmente perdendo con le puliture cui vengono sottoposti i più sottili trapassi chiaroscurali, rendendolo “un pittore di macchia”come mai il grande lombardo è stato; e sono danni irreversibili portati all’arte di Caravaggio, sia chiaro. Ripeto. Danni irreversibili portati all’immensa arte di Caravaggio, sia chiaro!”

Restauri dannosi, quelli di Pompei e del Caravaggio, oltre che inutili dal punto vista critico, perché si tratta di opere già riportate alla lezione autentica, e del tutto aleatori dal punto di vista estetico, perché volta a volta eseguiti nel gusto del soprintendente e del restauratore di turno: come scrivi nel libro…

 “Né soprattutto capendo, restando a Pompei, che si tratta d’una città in rovina. E che nessuna città può essere conservata lasciandola in rovina, cioè senza tetti, finestre, porte, grondaie, fogne e quant’altro.”

Vale a dire?

“Che per salvare Pompei bisogna porre in atto un vasto e molto complesso lavoro di ricerca scientifica con cui identificare inedite tecniche di conservazione preventiva che possono andare dai contenitori entro cui rinchiudere i monumenti fino a mettere a punto tetti, finestre, grondaie, eccetera, realizzati con tecnologie in grado di limitare al massimo il procedere del degrado del sito e a essere insieme esteticamente compatibili con l’esistente storico. Un’impresa entusiasmante soprattutto per i giovani, i quali in quel modo troverebbero davanti a un lavoro davvero qualificato e creativo, i cui risultati potrebbero subito ricadere nella normale edilizia, a partire dal dare soluzione ai simili problemi presenti nei centri storici delle città italiane. Ma impresa che può essere posta in opera solo se qualcuno, per Pompei, si mette finalmente nell’ordine di idee appena detto. Magari anche pensando a quale Ddt usare per disinfestare dalla camorra il contesto esterno al sito.”

A quando una valorizzazione del patrimonio artistico?

“Anche in questo caso siamo di fronte a un completo dilettantismo nella definizione del problema. Il che dà senso a quanto accade. Cioè a quotidiani (il giornalismo culturale….), soprintendenti, professori (anche di economia) e uomini politici che seriamente pensano che la redditività del patrimonio coincida volta a volta con il ricavo dai biglietti d’ingresso ai musei, oppure con il mandare le opere continuamente in mostra, ovvero ancora con il tirare fuori le opere nei depositi, come se esponendo opere minori, perché nei depositi soprattutto queste ci sono, come quelle di Pietro Sparapane da Norcia, piuttosto che di Ascensidonio Spacca detto “il fantino” (pittori realmente esistiti), la gente che oggi frequenta poco o nulla i musei si mettesse a far le corse per andarci. Tutto questo a attestare, nemmeno un ritardo culturale, ma il non avere la minima idea di quello di cui si tratta. A partire dal fatto che siamo ancora agli inizi del catalogo del patrimonio artistico, nonostante 1,1 miliardi euro (duemila e duecento miliardi di vecchie lire, fonte Corte dei Conti) spesi dal 1975 a oggi nell’impresa dall’Istituto centrale del catalogo. Un altro disastro.”

…ennesimo esempio dell’intollerabile inefficienza dell’Amministrazione pubblica italiana, quella che in una qualsiasi istituzione o azienda pubblica o privata d’un qualsiasi paese civile verrebbe severamente sancita.

“Mentre da noi tutto finisce a tarallucci e vino. Restando però alla valorizzazione, quella vera, in Italia questa coincide con la salvaguardia della caratteristica che davvero rende unico al mondo il nostro patrimonio storico e artistico. La sua indissolubilità dall’ambiente in cui è andato infinitamente stratificandosi in millenni. La sua onnipresenza sul territorio. E non si può valorizzare e tutelare un qualsiasi patrimonio, se non se ne conosce l’esatto numero di cose che lo costituiscono, dove quelle cose siano e in che condizioni conservative si trovino. In altre parole, non si può valorizzare e tutelare un qualsiasi patrimonio se si continua a procedere nella direzione esattamente opposta a quella di qualsiasi impresa scientifica che voglia avere un destino. Delimitare l’ambito dell’universo che si vuole esplorare.”

 E qui torniamo al mancato catalogo del nostro patrimonio artistico, nonostante gli 1,1 miliardi di euro.

 “Esattamente. A dimostrazione che molto meglio è che al Mibac siano dati pochi soldi, ovvero a benedire i residui passivi, soldi accreditati e non spesi per miliardi di euro, che il ministero è andato accumulando nei decenni. Infatti, nel permanere dell’assenza d’una qualsiasi politica di tutela che abbia un capo e una coda, cioè una politica che esca dalle griglie del pensiero di Argan, Brandi e Bottai 1938/39 e Zevi 1945, se quei soldi arrivassero, verrebbero gettati via in restauri estetici che danneggiano le opere, nell’iniziare nuovi cataloghi del patrimonio, poi mai finiti perché senza senso, in acquisti di ciofeche ritenute invece capolavori e così via sperperando e buttando dalla finestra.”

Riprendiamo il discorso sulla valorizzazione del patrimonio artistico. Questa, nella tua logica, diviene tutt’uno con la valorizzazione dell’ambiente.

“Proprio così. Tenendo però conto che la valorizzazione dell’ambiente coincide con la sua tutela Quindi, se lo Stato italiano vuole valorizzare il proprio patrimonio storico e artistico, deve finalmente mettersi a tutelare seriamente l’ambiente. A cominciare dal far interrompere subito, duramente e per sempre il criminale processo di cementificazione del paese da parte della speculazione edilizia. Impresa civile e logica, che però mi pare mai sia stata nell’agenda dei Governi che si sono succeduti nel nostro Paese negli ultimi decenni. Destra, sinistra e centro.”

Tu parli anche delle due torri di 110 e 80 metri che un architetto vuol costruire a Padova, davanti alla Cappella degli Scrovegni, con tutti i permessi di Soprintendenza, Comune e Regione.

 “Infatti. Una cosa insensata che si può spiegare col fatto che i nostri Governi forse sperano nel disastro finale. Sperano cioè, l’ho già detto, ma val la pena ripeterlo, nel già avanzatissimo abbandono d’un territorio dove sui circa 8100 comuni italiani, 6000 hanno meno di 5000 abitanti e 3000 di quei seimila sono in via di completo spopolamento; sperano anche nell’età media del clero, oggi di circa 70 anni, quindi con un rischio di un prossimo abbandono a sé stessi delle circa 100.000 chiese nei centri storici e nei luoghi più remoti del territorio; sperano, inoltre, nel sempre più diffuso disinteresse nei giovani verso l’arte del passato, disinteresse dovuto certamente alla già ricordata frase di Tocqueville, ma anche dalla criminosa assenza d’una qualsiasi politica scolastica d’insegnamento della storia dell’arte, politica che soprattutto dovrebbe guardare ai ragazzi provenienti da paesi esteri, circa il 10% dell’intera popolazione e italiani come noi. In sintesi, forse sperano i nostri Governi che tutto questo conduca a una silenziosa autodistruzione per abbandono di quei luoghi, monumenti e opere, magari anche pensando di poterci guadagnare qualcosa in tangenti sui caterpillar con cui buttar giù chiese, palazzi e semplici case storiche in rovina e sul successivo smaltimento delle macerie.”

 L’Istituto centrale del restauro?

 “Morto e stramorto. Morto nel momento in cui Urbani, nel 1983, si dimette sbattendo la porta, perché stanco della completa opposizione a qualsiasi progetto sensato d’innovazione della tutela da parte dei suoi colleghi professori universitari e soprintendenti. Basti che uno dei più importanti soprintendenti italiani risponde toccandosi e facendo le corna a una sua funzionaria che gli chiede di presentare nella loro soprintendenza l’appena concluso lavoro di ricerca, realizzato sempre dall’Icr di Urbani, su La protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico. Altro lavoro di ricerca d’enorme importanza strategica per il Paese, però prontamente buttato nel cestino della carta straccia da politica, Mibac e Università.”

Nessun nuovo direttore ha degnamente sostituito Urbani?

“Dopo di lui sono state messe a dirigerlo persone in molti casi di buoni sentimenti, ma prive d’una qualsiasi idea su cosa fossero restauro, conservazione e tutela; ancor più incapaci di condurre una riflessione razionale e coerente su quale sia il senso del passato nel mondo d’oggi. Unica eccezione, per certi versi, il troppo breve direttoriato di Michele Cordaro. Capaci solo, gli altri, di esportare le concettuose e sempre poco convincenti tecniche del restauro estetico argano-brandiano del 1938/39, reintegrazione a tratteggio, tinta della lacuna calda, no fredda, e così via banalizzando, in paesi come la Russia, l’India, la Cina dove da sempre artigiani bravissimi rifanno tutto “com’era, dov’era”, quindi artigiani e loro direttori dei lavori immagino perplessi al dover lasciare le opere figurativamente destrutturate da lacune, abrasioni e quant’altro danno nel nome d’un ideologico e sempre meno comprensibile storicismo. Incomprensibile in particolare nei paesi che non conoscono né praticano la filosofia di Croce.
Ciò a riprova dell’agonia in cui ormai da decenni vive e lavora un ICR che oggi arranca anche rispetto all’ultimo fortilizio che lo connotava come istituzione d’indiscussa eccellenza nel mondo. La teoria estetica del restauro.”

Un‘agonia… che dipende da…?

 “Un’agonia che deriva dall’averlo da sempre deprivato, Ministero e soprintendenti, di qualsiasi autorità nell’esercitare l’originario ruolo (ex lege 1240/39, art. 1) di luogo dell’elaborazione, del controllo e del coordinamento delle linee tecniche e organizzative circa restauro e conservazione nel paese: ancor più dai decisivi tempi delle direzioni di Rotondi e di Urbani, illuminate d’intelligenza, competenza e passione civile. Un’agonia che, torno a dire, dal 1983 delle polemiche dimissioni di Urbani, è andata via via aggravandosi, rendendo questa istituzione, nata per essere centrale nelle politiche di tutela del paese, sempre più afasica e emarginata, anche perché incapace d’elaborare in proprio una qualsiasi innovazione culturale circa restauro, conservazione e tutela. A meno di considerare innovazione culturale l’assurda mania che a un certo punto ha preso alcuni brandiani dell’ICR di raccogliere dei frammenti d’affreschi caduti a terra dalle volte e dalle pareti di alcuni nostri monumenti, come Calandrino raccoglieva sassi nel Mugnone. Penso ai completamente inutili e sbagliati restauri estetici, prima, nel 2007, della Vela della Basilica di Assisi in cui Cimabue aveva raffigurato l’Evangelista Matteo, Vela crollata a terra per il terremoto del 26 settembre 1997 anche perché mai nessuno (in primis lo stesso ICR) aveva avviato un lavoro di ricerca sulla prevenzione dal rischio sismico della Basilica di Assisi (la Basilica di Assisi!), pur se monumento notoriamente sito in una zona dove frequentissimi sono i terremoti. E penso al grottesco tentativo di ricostruzione, nel 2009, del Martirio di San Giacomo, parte delle Storie di San Giacomo  affrescate da Andrea Mantegna nella Cappella Ovetari agli Eremitani di Padova, danneggiate da una bomba nel 1944.”

Interventi inutili, sbagliati, grotteschi? E perché?

“Sì. E perché in anni di lavoro e con una spesa di alcuni milioni di euro pubblici, l’ICR dei brandiani ha restituito alla comunità scientifica e ai cittadini due opere di decisiva importanza per la storia stessa della civiltà figurativa dell’Occidente in forma di immagini inservibili dal punto di vista critico, inutili dal punto di vista storico, insensate dal punto di vista iconografico e offensive dal punto di vista estetico. Il volare d’un informe sciame di farfalle su una grande distesa di sabbia (i frammenti di Cimabue) e su una tanto grottesca e orrenda quanto rumorosa proiezione fotografica in bianco e nero (i frammenti di Mantegna). Né si dice che le operazioni di Assisi e Padova hanno lasciato a terra, dentro casse, centinaia e centinaia di migliaia di altri frammenti autografi non ricollocati, perché non ricollocabili; ed è quel che più di tutto indica, non tanto il fallimento, ma l’inutilità in partenza delle due costosissime imprese.”

Infine, il Ministro Bray ha letto il tuo libro?

“So che gliel’hanno portato. Ma forse non l’ha letto, visto che non mi ha chiamato a parlarne. Un fatto sintomatico il non voler sentire chi da quarant’anni vive dall’interno il mondo della tutela. Forse l’unico allievo di Urbani, in diretti rapporti con Brandi, per anni in stretta amicizia con Zeri, ha scritto la voce “Restauro” della Treccani del Novecento, unico italiano chiamato a scrivere nel Companion to Giotto della Cambridge University, ha scritto alcuni importanti libri di teoria e storia del restauro, ha restaurato la Colonna Traiana, gli affreschi della Basilica di Assisi, gli affreschi e i mosaici del Sancta Sanctorum e della la Basilica di Santa Maria Maggiore, il Battistero di Parma….Di là da questo, credo che Bray sia un uomo onesto arrivato al Mibac senza sapere nulla di problemi di tutela, ma proprio perché onesto, subito si è circondato di consiglieri di gran valore, come Settis e Montanari. Dopo di ché non credo che le sue Commissioni e le altre sue azioni porteranno a risultati. Infatti, se si vuole dare una soluzione concreta al problema della conservazione, e più in generale all’intero problema della tutela dei beni culturali, ci si deve arrendere all’evidenza che nessuna soluzione è possibile fintanto che non si individuano con la massima precisione i termini reali in cui il problema stesso si pone.”

Termini reali del problema che siamo ancora oggi lontanissimi dall’essere stati definiti.

“Questo è infatti il problema di fronte al quale prima di tutto si è trovato Bray. Di fronte al problema che al Mibac in moltissimi ancora oggi continuano a credere, more 1938/39/45, che siccome l’arte, come diceva Croce, è qualcosa che tutti sanno che cosa sia, la sua comprensione non è affare d’íntelletto pratico, ma di estetica e magari di filosofia del diritto. Quindi nessuno ha mai pensato che, per fare tutela, si devono per prima cosa definire i termini reali in cui il problema si pone, come attestato dall’essere ancora scandalosamente lontanissimi dall’avere prodotto un catalogo del nostro patrimonio artistico, nonostante – ribadisco – gli 1,1 miliardi euro spesi, cioè buttati dalla finestra, per quel catalogo. Così che oggi si possono produrre solo delle piccole razionalizzazioni, tipo far rimettere le divise ai custodi, diminuire (o crescere, è lo stesso) il prezzo dei biglietti d’ingresso ai musei, ridurre radicalmente l’attuale settantina – un numero da terzo mondo – dei clientelari direttori generali, a cominciare dall’eliminazione degli insensati direttori regionali, e così via. Azioni mille e miglia distanti da una vera e radicale riforma del Ministero. Quella che servirebbe. E che è una riforma degli scopi stessi della tutela.”

Alla luce di quanto hai detto, che consigli daresti a Bray?

“Gli direi:

“Egregio Ministro, rifletta sul fatto che l’unico ministro dei lavori pubblici italiano di cui tutti si ricordano ancora oggi è Fiorentino Sullo. Tutti se ne ricordano perché lavorò tra il 1962 e il 1963 a una riforma della legge urbanistica che voleva rendere proprietà pubblica i suoli edificabili. Riforma Dio solo sa quanto equa, razionale e utile per evitare la cementificazione del Paese, da allora infatti progredita esponenzialmente nei modi sotto gli occhi di tutti. Ma una proposta di legge che, proprio perché civile e equa, sollevò tali opposizioni nella parte più parassitaria e corrotta dell’economia italiana che ci fu chi la mise in collegamento con il tentativo di colpo di Stato tentato in Italia nel 1964”.

 Ma cosa c’entra Sullo con Bray?

“Lasciami finire. Gli direi ancora:

““Rifletta, caro Bray, sulla bruttissima figura che ha fatto con l’incresciosa vicenda dei 500 giovani disoccupati (over 35) ai quali, nel reboante “Decreto cultura” del Governo Letta, lei prometteva di dar lavoro entro un “programma straordinario d’inventariazione e digitalizzazione” del patrimonio artistico, per poi scoprire che quel programma non si sapeva cosa fosse e che per realizzarlo quel qualcosa che nessuno sapeva cosa fosse i 500 giovani sarebbero stati pagati 416 euro mensili lordi. Rifletta sulla sacrosanta rabbia (prontamente raccolta con scandalo dai giornali) delle molte centinaia di migliaia di archeologi, storici dell’arte, conservatori dei beni culturali e architetti irresponsabilmente laureati dalle Università italiane negli ultimi decenni, perciò disoccupati, che hanno visto in questo “programma” l’ennesima burla giocata sulla loro pelle dallo Stato italiano. Rifletta sul fatto che, per risolvere i ritardi e le inefficienze del Ministero (Mibac) che dirige, si è dovuto recare di persona a Reggio Calabria per mettere fine alla vicenda che da quattro anni teneva invisibili nel palazzo della Regione i Bronzi di Riace, uno dei massimi capolavori dell’arte di tutti i tempi. E che per mettere fine a quest’altra incresciosa vicenda ha dovuto addurre un restauro inutile e perciò stesso dannoso, perché il terzo in trent’anni. Terzo restauro in trent’anni che lei ha invece dovuto fingere, in televisione e sui giornali, intervento complesso e risolutivo…”.

Ma i cinquecento giovani presi per i fondelli mi pare faccenda più grave…

“Infatti. Perciò direi ancora a Bray:

 “Rifletta anche sul fatto che la rabbia di archeologi, storici dell’arte, eccetera disoccupati da anni e anni è stata abbastanza contenuta. La è stata, perché quei giustamente incazzatissimi archeologi, storici dell’arte eccetera disoccupati non sapevano che la triste, tristissima iniziativa di dare 416 euro al mese a 500 loro colleghi per un anno è nata dall’ideologica e costante opposizione all’intervento dei privati nel settore della tutela. Nel caso, per opporsi al fatto che la fondazione privata “Astrid”, presieduta da Franco Bassanini, che da anni lavora sul tema della tutela, preso atto dell’immenso e forse irreparabile ritardo con cui sta procedendo il catalogo pubblico del patrimonio artistico e del piano dato di fatto che l’intero problema della tutela non potrà mai avere soluzione fintanto che non si individueranno con la massima precisione i termini reali in cui quello stesso problema si pone, quindi quante siano le cose che quel patrimonio costituiscono, quali siano e dove si trovino, preso atto di questo, Astrid si è detta disponibile a finanziare un lavoro d’inventariazione speditiva del patrimonio artistico da condurre insieme al Mibac e da concludere in un paio d’anni. Un’operazione che avrebbe potuto dar lavoro in tutt’Italia a migliaia di laureati disoccupati pagandoli il giusto, ma lavoro di cui però il Mibac ha impedito l’attuazione opponendogli la farsa della cooptazione di 500 giovani chiamati a fare non si sa cosa per 416 euro mensili lordi”.”

 Dopo di ché, cosa c’entra l’antico ministro Sullo con Bray?

“Non avere fretta. Adesso te lo spiego…  Direi inoltre a Bray:

 “Vista l’assurda vicenda dei 500 a 416 euro al mese, che dimostra una volta di più l’impossibilità di riformare l’esistente per l’opposizione di tutti a qualsiasi innovazione del settore, dai sindacati, sempre filo-corporativi, al muro di gomma eretto da una burocrazia ministeriale tanto occhiuta e incompetente, quanto scaltra, violenta e autoriferita, come a quello alzato dalla quasi totalità dei soprintendenti, soddisfattissimi della rendita di posizione socio-culturale che il ruolo dona loro, perché non butta giù anche lei, come già Sullo, una bozza d’una radicale riforma del Ministero, con acclusa una nuova legge di tutela finalizzata alla conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, e porta il tutto in Parlamento? La stesura d’una simile proposta non è difficile da fare, perché già scritta in varie sedi negli anni settanta del ’900 da Giovanni Urbani”.”

Ma Bray lo sa chi è Giovanni Urbani?

“Credo di no. Ma questo non conta. Così che proseguirei:

 “Visto che, pour cause, lei Bray non ha la più pallida idea di cosa siano la tutela e la sua storia, perciò di chi sia Giovanni Urbani, ma visto che lei è uomo intelligente e onesto, chieda a Settis e Montanari come orizzontarsi circa il pensiero teorico e organizzativo di Urbani. Ad esempio, i due ben sanno dell’innovazione da questi introdotta nel mondo della tutela e dell’opposizione a quelle idee da parte di soprintendenti e politica. L’opposizione ai suoi progetti per una conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto a quello dell’ambiente. La contrarietà, ma forse anche l’incapacità di capire la profonda innovazione che avrebbe portato a tutela e valorizzazione del patrimonio artistico la fondazione d’una speciale ecologia culturale che riconosca alle opere d’arte e ai monumenti l’inedito statuto di componenti ambientali antropiche altrettanto necessarie al benessere della specie umana delle componenti ambientali naturali”.

La conservazione del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente. La fondazione di una ecologia culturale. Di nuovo idee enormemente suggestive. Idee civili e soprattutto ben spendibili sul piano della società, dei giovani in particolare. Il piano della società, quello su cui davvero si decide il destino di tutto, del patrimonio artistico, come dello star bene dei cittadini. Ma, scusa, ti ho di nuovo interrotto…

“Continuerei a dire a Bray che, che, in termini organizzativi generali, si dovrebbero per prima cosa riunire Ambiente e Beni culturali in un solo e indissolubile Ministero. Perché mai come oggi appare chiaro come la posta in gioco sia la tutela del patrimonio artistico nella sua totalità e nel rapporto di questa totalità con la totalità dell’ambiente. Poi si dovrebbe obbligatoriamente realizzare un’inventariazione in via informatica del patrimonio artistico, anche così risarcendo la malinconica commedia del “Decreto cultura”. Così da finalmente superare forse il maggior elemento di arretratezza culturale del settore, il dilettantesco a pensare che si possa tutelare e valorizzare un qualcosa che non si sa di quante unità sia formato, dove si trovi e quali ne siano i materiali costitutivi. L’inventariazione che oggi si può realizzare molto rapidamente e con costi limitatissimi, dando in più lavoro a un sacco dei giovani archeologi, storici dell’arte, eccetera oggi disoccupati. Abbandonando invece a sé stessa l’impresa del Catalogo, cioè consentendole di poter tranquillamente continuare con i ritmi attuali, quindi, visto il pregresso, per numerosi altri decenni”.

 Finiti i suggerimenti a Bray?

“No. Bray dovrebbe inoltre spiegare ai suoi uomini, direttori generali, soprintendenti, restauratori, eccetera, che la conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente è un lavoro pluridisciplinare da condurre in stretta unità con i vari esperti di settore. Quindi chiarire a moltissimi, anche se non tutti, di quei suoi uomini, che la materia della tutela reca caratteri di complessità tecnico-scientifica e organizzativa, come di chiarezza in partenza degli scopi da perseguire, che sovrastano a volo d’aquila la cultura storicamente data loro in dote dall’Università, al solito quella del restauro critico e estetico argano-brandiano del Convegno del 1938, dei vincoli e dei divieti della l. 1089/39 e dell’idea del 1945 di Zevi che il nuovo non debba avere rapporto alcuno con l’esistente storico; a attestare una volta di più come l’immenso ritardo culturale del settore della tutela trovi una sponda decisiva nell’Università. Il che significa, per direttori generali e soprintendenti, doversi finalmente misurare con una nuova e diversa formazione che li metta in grado d’affrontare i temi tecnico-scientifici, organizzativi, politici, economici, giuridici e di pensiero che sono quelli che davvero contano rispetto a una moderna tutela. Temi lontanissimi dal “tanto l’arte tutti sanno cosa sia”, quindi “chiunque può occuparsene”.”

Insomma, per la tutela i tuoi “nuovi soprintendenti” dovrebbero smettere di identificarsi, come finora in troppi casi è accaduto, nella celebre frase di Cocteau:
“Visto che questi misteri mi sono incomprensibili, fingerò d’esserne l’organizzatore.”
Il che mi pare impensabile. I soprintendenti griderebbero alla lesa maestà, ancor più la settantina di direttori generali, e i sindacati insorgerebbero come un sol uomo.

 “Certamente. Ma a parte che qualcuno dovrebbe finalmente chiarire ai sindacati che da troppo tempo difendono quasi solo gli interessi della parte peggiore dei lavoratori dell’amministrazione pubblica, i loro privilegi e inefficienze di casta, così come quel qualcuno dovrebbe anche dire a direttori generali e soprintendenti che il Paese ha raggiunto un tale livello di disfacimento da non rendere più possibile che le competenze continuino a venire dal ruolo burocratico, non da una cultura di specie indiscutibilmente attestata da studi, lavori e bibliografie frutto di lavori di ricerca originali e non d’ufficio, ciò premesso, sottolinerei a Bray che tutto questo non basta, che bisogna fare ancora di più”.

In che senso?

 “Gli direi:

 “Fermo restando che l’azione di tutela viene oggi svolta in Italia sulla base di un’organizzazione, territoriale – Istituti centrali e Soprintendenze – che è (e resta) modello nel mondo intero, si tratta d’indicare con molta precisione, sempre nel documento da portare in Parlamento, la proposta d’una radicale riforma del Ministero finalizzata alla conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, con acclusa la bozza d’una riorganizzazione dell’intero sistema della tutela. Ridurre di numero le Soprintendenze territoriali e dando loro dimensioni non più provinciali, ma calcate sulle aree culturali storiche del Paese, quindi anche interregionali. Ridefinire sompletamente, in accordo con l’Università, la formazione dei Soprintendenti e dei restauratori. Restituire all’Istituto centrale del restauro l’originario ruolo di luogo centrale dello Stato per il coordinamento della ricerca scientifica di settore, riformando completamente i profili professionali dell’attuale e sempre più arcaico e dilettantesco organigramma dei dirigenti”.”

Una riforma che si fa sempre più radicale…

 “Una riforma la cui base di pensiero sia – lo ridico – la fondazione d’una speciale “ecologia culturale”, e che prenda finalmente atto della piana verità di come, in Italia, patrimonio storico e artistico pubblico e patrimonio storico e artistico privato siano un’unità indissolubile su cui è assurdo che pubblico e privato continuino a lavorare divisi. Quindi una riforma che indichi con la massima precisione modi giuridici e tempi d’attuazione d’una revisione dei rapporti tra Stato, Regioni, Province e Comuni, Chiesa e altri privati proprietari, così da rendere possibile un loro condiviso e armonico lavoro comune sul rapporto tra patrimonio artistico e ambiente. A cominciare dalla decementificazione del Paese, immensa quanto civilissima e complessa impresa per la cui attuazione si dovrebbe chiedere un finanziamento – keynesianamente pubblico – all’Europa. Finanziamento che, quando elargito, aprirebbe migliaia di posti lavoro ai giovani in settori dei più vari e tutti finalmente qualificati. Dalla manutenzione di monumenti e opere d’arte, alla ricerca scientifica in materie quali restauro, storia dell’arte antica e moderna, diritto, economia, architettura, ingegneria, geologia, chimico-fisica, trasporti, agricoltura e via dicendo.”

Finiti i suggerimenti?

“No. Gli direi anche di prevedere la creazione d’una Scuola di alti studi in cui formare i soprintendenti, idea che è anche di Tomaso Montanari. Una scuola a numero chiuso, post laurea, con accesso sulla base di prove scritte e orali, e scuola che dopo tre esami sbagliati metta fuori dal corso l’allievo, sull’esempio di quanto fa da sempre il Politecnico di Zurigo. Scuola di alti studi, incentrati su materie storico-artistiche, come conservative, tecnico-scientifiche, giuridiche, economiche, filosofiche, e quant’altre. E qui mi fermo, ma potrei continuare ancora per molto.”

Il libro dei sogni?

 “Forse. Ma allo stesso modo di quello di Sullo. Nel senso che della sicura sconfitta in Parlamento del suo radicale piano di riforma del Mibac Bray saprebbe infatti benissimo in partenza. Sapendo però, sempre Bray, che questo è l’unico modo per farsi ricordare nel tempo in un Paese, l’Italia, corrottissimo e sempre più inadeguato sul piano culturale, sociale e politico, il Paese arcaico, familistico, immodificabile in cui ci è stato dato di vivere. Farsi ricordare, Bray, a futura memoria come il primo e solo Ministro che ha chiesto al proprio Governo di lavorare a un modello di sviluppo alternativo a quell’economia finanziaria che sta strozzando il Paese, un modello incentrato sulla salvaguardia del patrimonio artistico in rapporto a quello dell’ambiente. Il primo e solo Ministro che ha visto nella conservazione del rapporto tra patrimonio artistico e ambiente una concreta possibilità di dare un lavoro qualificato ai giovani. Il primo e solo ministro che ha incentrato il proprio incarico pubblico sul leopardiano “onesto e retto conversar cittadino”, finalizzandolo a “ciò che giova all’uomo”.”

…che è pur sempre una soddisfazione.

“Esattamente. Con una chance in più. Che, a meno che l’Occidente non finisca nelle tragedie di una guerra atomica o del simbolico, ma poi non tanto, cannibalismo del Cormac McCarthy di The road, un nuovo modello di sviluppo qualcuno prima o poi dovrà porlo in essere. Nuovo modello di sviluppo che, in Italia, non potrà non avere al proprio centro i due grandi temi del patrimonio artistico e dell’ambiente. E forse allora ci si ricorderà del solo uomo politico che di quelle cose aveva parlato anni prima, magari richiamandolo al Governo. Massimo Bray.”

(*) Ha lavorato su alcuni dei massimi monumenti della nostra civiltà figurativa: i rilievi dell’Ara Pacis e della Colonna Traiana, i mosaici paleocristiani e di Jacopo Torriti nella Basilica di Santa Maria Maggiore, gli affreschi e i mosaici del Sancta Sanctorum al Laterano di Roma, gli affreschi della Basilica di Assisi, i rilievi della facciata del Duomo di Orvieto. Nel 2001 ha fondato presso l’Università di Urbino il primo corso di laurea per la formazione dei restauratori, in cui è docente di Teoria e tecnica del restauro. Con Skira ha pubblicato numerosi volumi, da Il cantiere di Giotto (1996) fino a Il restauro. Giovanni Urbani e Cesare Brandi, due teorie a confronto (2009), e curato l’uscita degli scritti di Giovanni Urbani, Intorno al restauro (2000) e Per un’archeologia del presente (2012). Ha scritto la voce “Restauro” dell’Enciclopedia Treccani del Novecento (2004).

Il libro

  • Autore: Zanardi Bruno
  • Descrizione: 15 x 21 cm, 168 pagine, brossura
  • Collana: Skira Paperbacks
  • Editore: Skira
  • Argomento: Skira Paperbacks
  • Lingua: Italiano
  • Anno: 2013
  • Isbn: 8857219912

Info e altro:

  • http://www.skira.net/un-patrimonio-artistico-senza.html
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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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