Straperetana 2019. Nuovo polo del contemporaneo a Pereto in Abruzzo per la regia di Monitor Gallery e grande Tour nell’arte in situ

immagine per Straperetana 2019
Straperetana 2019, Pereto - 06 luglio, opening - La piana - ph. Barbara Martusciello

Straperetana è una rassegna d’arte contemporanea che nella titolazione si rifà al nome del luogo in cui è dislocata: Pereto, in provincia de L’Aquila ma non lontano da Roma e incluso tra i Borghi autentici d’Italia. Un autenticamente piccolo paese abruzzese fortificato, arroccato in alto, a circa 800 metri, e affacciato sulla Piana del Cavaliere, che permetteva agli stanziali, in tempi lontani, di dominare la vasta area sottostante e in lontananza e di scorgere estranei in avvicinamento o eventuali invasioni. Come molti altri comuni marsicani intorno, il centro storico ha un bellissimo, massiccio castello simile ad altri che costellavano la zona, nati come torri di avvistamento militari in comunicazione tra loro. Questa memoria storica è ancora palpabile ma nulla v’è più di quell’antico, giustificato carattere chiuso e sospettoso degli abitanti, che in questi tre anni di Straperetana hanno bene accolto nuovi ospiti e i loro linguaggi visivi su strade, piazze, nei palazzi e in siti caratterizzati per l’occasione da installazioni, video, opere a parete, azioni…

Su progetto di Paola Capata e Delfo Durante, tale collettiva diffusa si tiene dal luglio 2017 e, in questo 2019 (è in corso fino all’11 agosto), sempre per la cura di Saverio Verini, propone un percorso nel segno dell’arte contemporanea con un suggerimento tematico: La luna vicina.

Tale scelta, da una parte è connessa alle celebrazioni dell’allunaggio, dall’altra, più in generale – ci dicono ideatori e curatore – “a un’idea di prossimità e distanza al tempo stesso”, cioè a “un luogo altro per molti degli artisti invitati, che si sono acclimatati gradualmente, andando alla scoperta di questo territorio attraverso numerose visite e sopralluoghi” e come lo stesso visitatore che si trova ad esplorare Pereto e l’arte disseminatavi.

Questa tipologia di manifestazione, con opere sparpagliate, site specific all’aperto o comunque allestite a creare, in paesi e talvolta in città, percorsi di senso e di forma, non è nuova, se ne sono viste, se ne vedono e se ne vedranno ancora (chi scrive ne curò alcune, già nei lontani primi anni Novanta, un po’ più a Sud), ma quel che convince in questa proposta abruzzese è che nulla appare calato dall’alto, proprio nulla; che non si avverte quell’irritante sensazione di “colonizzazione” che talvolta in altre situazione si è percepita: le opere dialogano e sono, anche quando più algide, in rapporto con il luogo.

Non è un caso: Paola Capata mi racconta che a Pereto vive da ben cinque anni. Al timone della galleria d’arte contemporanea Monitor a Roma, nel 2003, poi con l’esperienza di uno spazio a Manhattan e dal 2017 con una seconda sede a Lisbona e presto con una terza proprio a Pereto (tra il 20 e il 21 settembre!), ha scoperto il borgo casualmente e se ne è innamorata; con Delfo Durante lo ha visitato, conosciuto, apprezzato e monitorato; abitarci è stato quasi naturale e ciò ha permesso alla forestiera, ai forestieri, di essere via via considerati parte della comunità che a sua volta, in tre anni, è stata battezzata all’arte. Molte persone del luogo hanno cominciato a incuriosirsi, a volerne sapere di più, a non sentire l’arte estranea, e nemmeno gli artisti che – come ha raccontato Gioele Pomante, autore di una serra piuttosto speciale – sono stati persino omaggiati di… lasagne e bicchieri di vino dalle signore del paese mentre erano intenti ad allestire le proprie opere.

Il tour è composto da laiche stazioni in ognuna delle quali uno o più artisti manifestano la propria ricerca attraverso opere esibite o, in alcuni casi, più nascoste: come quelle di Raffaele FiorellaProve per una lunga attesa, 2019 – 11 sculturine in terracotta posizionate in diversi punti di Pereto a suggerire altri abitanti, “espressione di un’alterità pacifica e quasi rassicurante”, osservatori silenziosi della vita quotidiana del Paese; o come l’installazione di Silvia Mantellini FaietaProtezione visibile, 2019 – fatta da decine di piccolissime  immagini fotografiche su frammenti di vetro, come preziose memorie, tracce di paesaggi urbani o naturali, incastonate sulla parete rocciosa lungo gli attraversamenti di Straperetana e che ricordano come ciò che è o appare minimo, fragile, essenziale, è forse più pregiato e necessario.

L’esperienza Straperetana inizia quasi sotto, il Castello, dove Giuseppe Gallo ha costruito una casetta verde brillante: un pollaio – Pollaio n° 5, 2017 – 2019, legno, rame, dimensioni variabili –, con una sua eleganza, per la verità, e senza… polli, che però si intuiscono per via della funzione della struttura. Essa è un’abitazione che ironicamente dialoga con quella umana, fortificata e gentilizia, che è lì, quasi di fronte: l’artista mette in relazione/contrapposizione simbolica volgo – gli animali da cortile con il loro riparo – e nobiltà – i castellani – condividendo o contendendosi il… posto al sole… Di questa reggia per pennuti è esposto un modellino negli spazi di Palazzo Iannucci e la giocosa associazione del cognome dell’autore – Gallo – con i galli e le galline, riporta un po’ tutto sul campo dell’arte e fa pensare che quel… posto al sole spetti, forse, anche all’Artista e al suo linguaggio.

Il giorno dell’opening, oltre a un piacevole Dj-set di Raffica Soundsytem sul belvedere di Pereto, al termine dell’inaugurazione, si è assistito, in una delle prime piazze incontrate nel paese, dove affaccia il bel Palazzo Maccafani, alla performance ideata da Matteo Fato, Il Piano del Cavaliere ossia Essere un Cavaliere, con un giovane cavallerizzo vestito da astronauta sopra un vero, magnifico cavallo agghindato ad hoc. Il richiamo è alla leggenda del Cavaliere che si dice dette vita alla Piana sottostante e dunque Matteo Fato qui recupera quella tradizione innestandola sul tema lunare; la performance diventa straniante, surreale, stratificata di notazioni, significati, storie e cronologia riattualizzando, di fatto, due miti: quello stanziale (marsicano) e quello mondiale (viaggi interstellari e allunaggi).

Più avanti troviamo ancora opere di Matteo Fato: a Palazzo Iannucci: in quella che era la sala da pranzo del sito, l’artista ci mostra dipinti “nati in autonomia” – come ci dice – ma che compongono parallelamente una “serie unica, nata ad hoc per Straperetana”: vi ritroviamo il cavaliere e l’astronauta, che nella performance alle porte del Paese ci hanno accolti, ma lì incarnati in modo surreale in un unico personaggio sul suo bel destriero. Lì e qui si fondono l’interesse per la memoria storica epica, leggendaria: del Cavaliere della tradizione locale e della vera vicenda di Charles Duke.

Astronauta dalla lunga esperienza, l’americano è stato pilota collaudatore, comandante nel 1972 del Modulo Lunare, nella missione Apollo 16 – decima missione con equipaggio umano del programma Apollo della NASA e quinto allunaggio – che lo elesse il decimo uomo e il più giovane che ha camminato sulla Luna. Ma fu anche membro della squadra di supporto per la missione Apollo 10 nel 1969, la quarta missione con equipaggio, e operò poi, relativamente alla missione Apollo 11, dalla Capsule communicator, centro di controllo che tiene a terra il contatto tra gli astronauti in volo nello spazio. Ebbene: la sua voce, piuttosto preoccupata, sciolta poi nella sicurezza di un allunaggio avvenuto con successo, divenne familiare in tutto il mondo: “OK, tranquilli, vi vediamo al suolo. Avete fatto diventare blu un bel gruppo di ragazzi. Ricominciamo a respirare. Grazie Mille!.

Ma la frase che lo rese celebre fu quell’esclamazione emozionata e in italiano –“mamma mia!” – durante la sua passeggiata lunare del 1972 che lo vide anche lasciare una foto di famiglia con la scritta sul retro dei suoi dati personali, prima di andarsene dalla luna. Sappiamo che la foto è ancora lì pur se priva dell’immagine fatta scomparire quasi subito dalle altissime radiazioni solari. Figurazione, paesaggio, memoria sono elementi qui presentissimi e ai quali Fato dà struttura con la sua pittura. E la narrazione e la biografia affascinante connessa a tale personaggio dalle esperienze speciali, hanno avvinto particolarmente l’artista che ha sovrapposto – come spesso egli fa – riferimenti diversi con qualcosa che egli ravvede, evidentemente, di interessante e simile: il viaggio, l’avventura, due paesaggi rilevanti – in terra e in cielo –, la marcatura di un territorio, l’espansione dei confini… Il suo magma cromatico denso accoglie tutto questo, vibra, in uno “sfasamento temporale e paesaggistico, in cui riescono a convivere la dimensione terrena e quella lunare”. Così, il tema-suggerimento di Pereto è rispettato.

La pittura abita anche a palazzo Maccafani. Qui, Aryan Ozmaei, mette in scena la memoria e la comparazione tra storia personale e quella della collettività del paese che si incontra e produce una sorta di capsula del tempo per altri esseri e mondi grazie a un’altra memoria ancora: quella universale dell’arte; una seconda artista che ha scelto la pittura per la sua ricerca è Paola Angelini: con Le Nouri, un grande olio su tela dal carattere utopista, raffigura uno strano astronauta e cita il Polittico di Gand di Jan e Hubert van Eyck; con Ricordo della luna, realizzata in rilievo su tela, si focalizza invece su un’ipotetica fotografia lasciata sulla luna che, in balia degli agenti atmosferici, subisce mutamento chimico, alterazione cromatica e strutturale: qualcosa del genere è davvero successa – ne ha trattato, abbiamo detto, Matteo Fato – ma qui si trasforma in una strana scultura fluorescente; successivamente, “fotografata dall’artista in un paesaggio campestre”, l’immagine, stampata su manifesti dall’artista, si estende, ramifica tramite affissione per Pereto: a comunicare non più consigli per gli acquisti ma… visioni.

Gioele Pomante con Habitat #1, ha creato una serra e quindi un microclima pieno, però, di oggetti d’affezione che compongono una mini-galleria, idealmente trasportabile ovunque; questa  sorta di Wunderkammern personale raccoglie e protegge cose, e dunque memoria, storia, un senso. Poiché è possibile entrarci dentro, o guardarla da fuori – è fatta di materiale trasparente –, queste meraviglie ivi contenute si possono riconoscere o meno, anche toccare, e in esse si può proiettare qualcosa dei propri ricordi personali oppure si può uscire da lì indifferenti e quegli oggetti possono restare, per il fruitore, misteriosamente silenti. In ogni caso, la raccolta vive ulteriormente grazie alla fruizione, e l’esperienza è duplice: non accade sempre così con il linguaggio dell’Arte??

Proseguendo l’on the road per Pereto agghindato a festa – una gran festa dell’arte – si si assiste alla performance di Pawel und Pavel, duo composto da Italo Zuffi e Margherita Moscardin. Uscita n° 10 è azione rituale e politica, poiché attiva, da un balconcino di una casa, uno srotolamento di vessilli che “sono assimilabili a stendardi medievali, eco di antiche comunicazioni ufficiali, ma anche a striscioni di protesta esposti alle finestre”. Volutamente lentissima, l’opera/azione ci apre ai temi dello sdoppiamento – fisico, del linguaggio, della comunicazione –, della tradizione vs contemporaneo, non tralasciando una riflessione sulla necessità del (ri)darsi tempo (ricordiamo la calma con ci è condotto il tutto). Quello srotolamento e riavvolgimento di una coppia di tessuti, sui quali è cucita una frase in italiano e in polacco, con “’assenza di riferimenti e termini di paragone”, rimane appesonel qui e ora dell’osservazione della performance – “alla sola nostra attenzione dei gesti e, successivamente, ai segni lasciati da una fotografia e da un timbro su muro, uniche tracce dell’Uscita”. 

Luca De Leva sceglie uno spazio dismesso, fatiscente, quasi sotterraneo dove la sound-art è portante. L’opera è apprezzabile per una scarnificazione dell’intervento che risulta poetico e allo stesso tempo inquietante ed è di grande impatto emotivo. Si basa essenzialmente sulla parola e sul suo suono, sulle voci femminili che inizialmente percepiamo appena: via via creano un mantra e volume e velocità verbale aumentano. Cosa dice la donna, o cosa dicono le donne, dato che distinguiamo forse due diversi timbri? Una preghiera – l’Ave Maria – che sappiamo citare una madre, come forse una delle voci nell’opera è della madre dell’artista e l’altra di Fiammetta, sua sorella. Dunque ci troviamo immersi in un iniziale materiale intimo, personale che si allarga a comprendere qualcosa di più complessivo: come può esserlo il disagio, la malattia, la necessità di comunicare, un tentativo di esprimersi meglio, una nenia a cui aggrapparsi per dire o sperare. Sono, questi, un sottotesto rintracciabile in questo suo nuovo lavoro: di una realtà altra, che abbiamo già incontrato nella ricerca dell’artista, palesato – anche in due mostre che apprezzai a Roma: Fiammetta Dixit nel 2014 da Cura.basement, e Ultime volontà, del 2017 alla galleria ADA di via di Tor Fiorenza – che ci ha svelato un mondo ai più indecifrabile, duplice, non conformato, che spesso la società considera anomalo, doloroso, estraneo ma che l’artista, che lo conosce personalmente, ci indica come speciale. Semplicemente speciale. L’atmosfera che veicola tutto ciò è inizialmente allarmante, poi via via struggente e sempre più carezzevole: per qualche motivo, tocca corde profonde, originarie

A Palazzo Iannucci – decadente luogo che fu caserma e casa del prete – incontriamo, oltre al citato modellino del Pollaio di Gallo, l’opera di Federico Tosi: Baby (bones) Dolphins, 2017 – osso scolpito, 34 × 13 × 12 cm. E’ un’allegoria di un’epoca in cui l’essere umano, quasi bulimicamente, si impossessa di tutto e velocemente divora, ovvero usa ciò che vuole, “mutandolo a suo favore e riconsegnandone una versione deformata, esaltante e terribile insieme”, e infine consuma: disperdendo presto motivazioni, concetti, memoria, esperienza. E’ il Consumismo, è la Società dell’Immagine, Baby… “L’artista ha intagliato e scolpito alcune ossa d’animale, ricavandone immagini spiazzanti: un delfino, un feto e un coniglio si materializzano come dei bassorilievi sulla superficie delle ossa, generando un cortocircuito tra la brutalità del materiale e la rifinitezza della lavorazione. Attraverso un intervento certosino, non privo di un’attitudine ironica, le ossa acquisiscono una grazia inaspettata, sospesa tra dimensione organica e rielaborazione artistica”. Qualcosa, quindi, così, si salva da quel consumo e dall’oblìo…

Il video Methallomai, 2012 di Luca Bertolo ci catapulta in una ricerca e in un’atmosfera misteriosofica, esoterica; mette in scena la sensazione di un cammino “breve e intenso”, tra desolazione paesaggistica e modificazioni cromatiche, che allude al viaggio lunare; il senso dell’opera è metaforico, esistenziale, alchemico, escatologico, come ci racconta il curatore: “L’intero video propone un percorso di trasformazione: alla fase della nigredo, o opera al nero, in cui la materia si dissolve, putrefacendosi, succede la fase dell’albedo o opera al bianco, durante la quale la sostanza si purifica, sublimandosi”.

Salendo al primo piano del Palazzo, carico di memoria antica, che ha un suo peso nel rendere accattivante il tour e accogliere le opere qui allestite, troviamo opere di Matteo Fato, che abbiamo approfondito; e di Serena Vestrucci, Cleo Fariselli e Chiara Camoni.

Serena Vestrucci è in mostra con Ritagli di tempo, libro rifilato, frammentato, lavorato, tra forma e linguaggio (scritto), in cui avviene una concretizzazione del tempo libero, un po’ come  quello occupato nella pratica dello sforbiciamento tipico, ad esempio, dei giochi infantili che impegnavano e impiegavano, appunto, una certa durata di minuti e ore; ne deriva un oggetto trovato e manipolato ad hoc che fiorisce, letteralmente – contiene sulla sua pagina un fiore tridimensionale fatto di striscioline di pagine – e, soprattutto, diventa una sorta di cronometraggio, documentazione del tempo impiegato per tale realizzazione in cui l’ozio diventa virtuoso e sacrosanto; pur se si intravedono lirici echeggiamenti in un’opera esteticamente bella, quel che colpisce è la sua forza politica: il libro usato dalla Vestrucci è L’orario di lavoro delle 8 ore: la relazione e quindi il Disegno di Legge di Filippo Turati approvati dal Consiglio superiore del lavoro nel luglio 1919  a sostegno delle 8 ore lavorative Una rivoluzione, anche culturale. Esse permisero – socialisticamente – maggiori diritti ai lavoratori, con tempi della fatica e dell’impiego più sostenibili e il recupero di una parte della giornata dedicata al riposo, alla famiglia, alla propria libertà…: “otto ore di lavoro, otto ore di sonno, otto di riposo e d’istruzione”.

Cleo Fariselli qui espone Paesaggio acquatico con biscia, uscendo dalla scultura dalla performance che solitamente essa pratica e che l’hanno caratterizzata. Due dipinti su tavola portano la figurazione verso territori meno riconoscibili; infatti, recano un richiamo fotografico: nei dettagli di paesaggio e nell’acquoso fuori-fuoco. Ciò conferma come la ricerca di un artista funzioni e sia perseguita anche indipendentemente dalla tecnica utilizzata. Nel suo caso, la caratteristica multiforme del suo lavoro conserva e comunica qualcosa di incalcolabile,  di  indefinito suggerendo il valore immaginifico del mistero: come rilevato anche in una sua potente personale (2018, Operativa Arte Contemporanea), ci indica la necessità di non fermarsi sulla soglia ma di entrare nelle cose; ci ricorda, anche, di quanto sia importante – come ho avuto già modo di scriverlo quiriuscire ad ascoltare con gli occhi e guardare con il cuore, mentre alla testa – la ragione e le sinapsi complesse che governano tutto – è lasciato il compito di mettere in relazione questa totalità: quella del linguaggio dell’arte e delle infinite possibilità di esistere…

Chiara Camoni, con Le quattro sorelle – 2018: stampa vegetale su seta, 4 teli, 120 x 45 cm ciascuno – non ritrae ma riporta direttamente la Natura nelle sue opere, con un’impronta diretta su tessuto lasciata da fiori e foglie con alte proprietà tintorie. Un calco, una stampa vegetale nega la mimesi per portare una più diretta presenza e testimonianza dell’Ambiente ecologico, costantemente a rischio – per cause umane – e perennemente metamorfico anche per questo; e mai del tutto conosciuto. È un infinitesimamente piccolo rispetto alla grandezza di quanto è creato, è al mondo. Lo Spazio, sondato, esplorato dall’essere umano, resta, tutto considerato, lontano da noi, da lei, mentre il suo giardino e il bosco limitrofo, da dove ha recuperato la flora per l’arte, sono vicini, familiari, e fanno parte di un mondo facilmente ispezionabile. Vale la pena di cominciare da lì a cercar di conoscere, capire, eternare. Testimonia, Chiara Camoni, la saggezza del detto: dal particoloare all’universale…

Luca Vitone ripropone il video Usuale – 1995 – in cui in un tempo reale di 9’45” cammina, contando i passi, facendo una prima esperienza di luoghi conosciuti. Il percorso è urbano e a lui noto, eppure può non essere ma uguale: se ci pensiamo, la disuguaglianza è determinata anche da chi lo percorre, pur se quotidianamente, che può inciampare, essere dipendente dalla propria salute, dalla propria agilità, dal tempo, che muta mutando chi lo vive. Così, l’artista, che va dalla propria abitazione allo studio, attua una  pratica simbolica di riconoscimento, risignificazione, ridefinizione dello spostamento e degli spazi di routine, e parallelamente pungola la memoria: in un concettualistico “tentativo di esplorare con occhi nuovi percorsi abituali, aggiungendo coordinate ulteriori alla propria geografia personale”.

Paolo Icaro, con Two pears, guardare e vedere – scritta su muro con carbone, gesso, pietre, comodino in legno, cartone – si conferma generoso, ironico, poetico, garbato, concettualista: guardare e vedere non sono la stessa cosa; e non è un binimio pere/Pereto– mi viene in mente anche un gioco di parole: (o)pere(to)! –, seppur può essere plausibile e funzionare. Richiamando liricamente tra i più affinati poeti americani, Wallace Stevens, e la sua poesia dedicata allo studio di due pere, porta alla luce il confronto tra linguaggio e forme… Lo fa affidandosi al luogo: è giunto lì e ha mappato il territorio, ne ha tratto i materiali essenziali per l’installazione: del carbone per scrivere sulla parete, al comodino su cui sono poggiate due pietre trovate,  molto simili, nella loro forma oblunga, proprio  a delle pere. Così, l’arte pone interrogativi, pungola, propone prospettive non omologate sul mondo, visibile o sconosciuto, e un’opera analitica, come un dispositivo concettualistico, si fa anche poetico: proprio come il testo di Stevens. Così, nel suo vedere, dell’artista e del poeta, potete “vedete la terra nuovamente” (W. S., 1949)

Giuliana Rosso, con il dondolante, animato Blue Whale, 2017, concepito con carte allestite angolari e con forme ritagliate e appese nello spazio circostante, evoca una camera di giochi di bimbi, ma giochi, evidentemente, seri, “tra la macabra cupezza della scena – vigilata in alto da una bonaria luna nera, simile a un’emoticon – e il carattere quasi infantile della rappresentazione”. Questa contrapposizione (o giustapposizione?) tra elementi, senso, atmosfere, la sua pittura e l’effetto tridimensionale che ne dà, il prendere spazio della superficie-quadro, si pongono sul crinale finissimo tra fragilità e robustezza, frammentazione e riunione, sogno e realtà, certezza e incertezza, qui e altrove e, insomma, ci sussurrano della complessità dell’esistenza e del nostro intendere e vivere la vita.

Scelte di qualità, queste per Straperetana 2019 che sembrano aiutate anche dal clima di collaborazione tra tutti i partecipanti; plauso al giovane Saverio Verini, che ha saputo selezionare artisti diversi e non tutti mainstream, anzi. Anche  Capata e Durante devono avere apprezzato, dato che, mettendoci faccia, lavoro, fatica, economia, hanno affidato al curatore l’incarico. Che lo ha onorato accogliendo ricerche eterogenee: più politiche, concettuali, con carattere ironico, con piglio politico, più poetiche, esplicite o evocative…, con pittura, installazione, performance, fotografia, scultura, video. Anche con  il pubblico tirato ludicamente dentro il processo creativo dell’arte.

Come ha progettato il duo Franca (Adelaide Cioni e Fabio Giorgi Alberti), con Tutto fuorché la luna: una performance partecipata fatta di differenti sagome di cartone coloratissime che parevano – il giorno dell’opening – come catapultate sulla Terra direttamente dal mondo dell’illustrazione, delle favole o dalla sfera celeste. Ogni manufatto degli artisti è stato selezionata dai partecipanti in loco: astanti, artisti, organizzatori, addetti-ai-lavori ospiti etc.; chi ha scelto un razzo, chi angeli, chi astri come un proprio attributo – per la cronaca: io ho abbracciato una stella vivacemente gialla, a metà tra giorno e notte: talvolta sole, talvolta luna (cit. A. Boetti) – per poi dar vita, con il corpo e il proprio vessillo profilato, a un grande tableau vivant.

Tutti si sono radunati, nella leggerezza di un’allegria quasi adolescenziale, per finire in bellezza con una foto di gruppo, “tra parodia e tentativo di dare un carattere performativo” e la possibilità di acquistare il proprio cimelio. Il mio, attualmente splende sopra la mia scrivania ma non giurerei che, di notte, a luce spenta, non vada a zonzo, a controllare cosa fanno gli altri sodali elementi del quadro scenico e dell’azione…

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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