Frammentazioni non è solo una mostra esercitazione del Master Luiss

opera di Michelangelo Pistoletto, Frammentazioni, LUIISS Roma 2017.

Frammentazioni non è solo una collettiva-esercitazione degli studenti a chiusura del Master of Art della LUISS di Roma; è una mostra convincente a prescindere dal suo nascere e formalizzarsi come una sorta di esame di idoneità curatororiale.

Funziona anche nel tema individuato, che accoglie artisti eterogenei per appartenenza generazionale, curriculum e ricerca ma uniti da una riflessione comune sulla frammentazione – appunto – come manifestazione dell’arte e della cultura attuali, oltre che sintomo tipico della realtà contemporanea a livello strutturale, sociale, psicologico, di habitat ed ecosistemi e persino politico; e sia personale che collettivo.

Achille Bonito Oliva, responsabile scientifico del Master, a proposito della concetto portante dell’evento, sottolinea:

“Il tempo, nella sua modernità, ha scardinato ogni narrazione unitaria costringendoci ad una visione frammentaria e precaria. Insomma, come diceva Shakespeare nell’Amleto, il tempo è uscito dai suo cardini”.

La collettiva si è sviluppata nel giardino e negli interni della magnifica villa Blanc, struttura articolata, piena di edifici storici di pregio, datati fine ‘800, ammalorati nel tempo e per anni  deturpati da vandalismo e incuria; la villa è stata recuperata dopo attenti restauri e generale sistemazione dalla LUISS e restituita alla sua bellezza e alla città che ne può godere sia grazie a questa mostra sia – ci dicono dalla stessa università –  con aperture straordinarie e ad hoc tra un po’.

Gli artisti che si sono confrontati nello spazio e con la tematica proposta sono tanti: Marco Bagnoli, Nanni Balestrini, Marcella Campagnano, Aron Demetz, Giovanni Ferrario, Sidival Fila, Andrea Galvani, Silvia Giambrone, Francesco Irnem, Francesca Leone, Felice Levini, Francesca Piovesan, Michelangelo Pistoletto, Fiorella Rizzo, Anna Scalfi Eghenter.

Ci sono anche produzioni totalmente originali: l’omaggio di Giulio Paolini Senza titolo – Studio per la mostra LUISS Master of Art e Porzione di Villa Blanc 2017 di Baldo Diodato fatta per il giardino della villa durante il vernissage in una performance insieme al musicista Antonio Caggiano.

Sono da segnalare le opere di Alessio Barchitta, Elena Mazzi e Leonardo Petrucci, finalisti della seconda edizione del Premio Internazionale Generazione Contemporanea – istituito proprio da LUISS Creative Business Center – nato per promuovere l’arte contemporanea, sostenere gli artisti under 35 e dare vita alla collezione permanente dell’Università LUISS Guido Carli.  Con soli 3000 Euro di Premio, la LUISS si è portata a casa una scultura davvero corposa, importante, di Petrucci, vincitore del Premio.

Andiamo a incontrare e raccontare le opere allestite e l’adesione degli artisti al tema in oggetto.

Fiorella Rizzo ci accoglie nel grande parco della Villa con un ordinato intreccio di tubi in pvc trasparente chiusi al loro estremo da globi di vetro che brillano alla luce del giorno: tutto, con altri elementi intorno, appare semplice, povero, ma è allo stesso tempo esteticamente accattivante. E’ posizionato sulla terra in modo da mimare radici, ramificazioni pure, che sembrano ricordare come, nella Natura, e forse nella Cultura, la frammentazione non sia necessariamente sbriciolamento contemporaneo ma risulti, semmai, solo temporanea

Michelangelo Pistoletto ci propone una sua  ulteriore declinazione di Terzo Paradiso, stavolta composto da piantine di lavanda profumata appositamente organizzate a creare l’ormai famosa immagine, quasi un logo made-in-arte.

Marco Bagnoli con la monumentale e formalmente eterea Araba Fenice indica quanta possibilità rigenerante ci sia anche nella distruzione (fuoco e cenere leggendari): che non cancella, semmai nasconde, trasforma, crea rivoli; sta alla memoria degli uomini farne tesoro, e alla Bellezza e all’Arte ricordare il valore dell’unicità, dell’originario e dell’assoluto.

Quasi di fronte, Baldo Diodato palesa impronte in alluminio che possono inglobare qualsiasi elemento della realtà: anche una sua parte, dei brandelli; ma ricomponendola e, grazie alla prassi del calco, eternandola.

Impossibile non farsi risucchiare emotivamente dalla sound arte calibratissima, poetica e allo stesso tempo dura di Silvia Giambrone, che ha predisposto, nel passaggio per entrare in uno degli edifici della mostra, due casse acustiche, una davanti all’altra.

Da qui escono voci di donne che chiamano, pronunciando la parola “mamma” (e Mamma è, infatti, il titolo dell’opera: datata 2009 è qui riallestita ad hoc in una ulteriore versione).

Il tono inizia quieto, piano, poi si alza e si fa sempre più forte; le voci a un certo punto si sovrappongono e sembra si rincorrano a vuoto riportando effetti di inquietudine e preoccupazione.

Riconvocano, nel qui e ora dell’audio, diverse generazioni, frammenti di tempo, di storie, emozioni, vocalità, che si ricompongono e attivano una possibilità di maggiore partecipazione del visitatore fruitore: egli si  può inserire nella circolarità sonora, ci può entrare dentro – inevitabilmente, nel percorso obbligato alla collettiva – diventando un po’ attore egli stesso, nella parte di chi convoca e di chi è richiamato… che sia figlia o madre.

L’installazione permette, così, di percepire quanto tutto torni attraverso gli effetti evocativi e i ricordi: e da particolare, personale, relativo, parcellizzato, si faccia (si scopra) assoluto.

Il giro continua all’esterno e all’interno. Scegliendo l’area chiusa, al coperto, ecco che –  impallate da un enorme albero di Natale che onestamente poteva essere collocato altrove, nel rispetto dell’opera d’arte – troviamo la citata opera di Giulio Paolini che basa da sempre la sua concettuale ricerca sul linguaggio dell’arte adottando la modalità della citazione, del frammento e del doppio (e della duplicazione).

Qui particelle del passato, della storia e della cultura – colonne e statue antiche – trovano una possibile riunione proprio nel campo pittorico: schermo accogliente ove sperimentare tale utopia (realizzata ).

Di fronte ecco Rot (1993) di Nanni Balestrini che ripropone la sua storica pratica del collage: perfetta per il tema.

Con essa Balestrini, attraverso ritagli separati, visualizza, però, un unicum per dirci, alla sua maniera dura e pura, quanto la rottura non possa essere definitiva se incide in qualcosa che non ha, di fatto, ancora un equilibrio ricostruito: come quel Novecento che – e mi viene in mente Claudio Magris, che ne parla – è tensione convulsa fra totalità e frammentazione.

Nella sala d’attesa della School ecco la scultura-dispositivo di Anna Scalfi Eghenter che individua i frammenti di quelle parti del corpo implicate in una particolare azione e da lei riunite insieme e rese misurabili.

Sono quelle coinvolte quando assumono la postura del saluto ufficiale o di buona educazione muta, oggi desueta e fanno parte di un particolare codice condiviso per indicare una comune appartenenza sociale e civile. Forme, quindi, che l’arte individua come singole parole e che riunisce in una peculiare riflessione sul linguaggio.

Dall’altra parte della sala si alza l’opera di Francesca Piovesan: un altro lavoro sulla misurazione corporea, ma qui relativa al proprio, di corpo, come campo di indagine.

Da intero che è, è frazionato per essere scandagliato in dettaglio, poi riportato nelle singole porzioni attraverso impronte fisiche, impressionate – e qui entrano in gioco il nastro adesivo e lastre di vetro –, per riportare tutto nella sua – ma più analizzata e cosciente – unità.

Entrando in una sala piccola e caratterizzata da pesante legno alle pareti ecco quasi una mostra nella mostra.

Vincitore del contest della LUISS di cui abbiamo detto, Leonardo Petrucci ha installato More than the endless Column (2015): una sorta di origami tridimensionale, totemico ma leggerissimo perché fatto di carta (nera).

Si compone di singoli elementi geometrici inanellati uno sull’altro in verticale, a richiamare consapevolmente la forma della famosa, storica Colonna infinita.

Lo è ma oltre quella brancusiana, perché in progress, potenzialmente volta a superare la già notevole altezza di metri 29.3 dell’opera del maestro rumeno e pensata per confrontare piccolo e grande, per coniugare particolare e universale e accordare arte e scienza, estetica e coscienza.

Marcella Campagnano ricorda a tutti noi tematiche di identità e di genere basilari negli anni della sperimentazione anni ’60 e soprattutto ’70. Così, il suo L’invenzione del femminile: RUOLI, datata 1974, è capolavoro di una forza e di una concettualità incredibilmente potenti; è ancora oggi maledettamente attualissimo, nonostante metta in scena e fotografi travestimenti di stereotipizzazioni femminili – madre, moglie, casalinga, amante, prostituta – di quegli anni. Il senso è lo stesso ieri come adesso.

La frammentazione è anche qui, non solo della donna intesa “da un punto di vista sociale e psicologico”  ma anche “tra sguardo interno ed esterno”. L’identità è ancora e sempre, purtroppo, invischiata nel rivestimento sociale e culturale che l’arte denuncia e può superare indicando l’appartenenza di genere come qualcosa di dinamico e non, invece, statico come lo sono le convenzioni: del 1974 e del 2017.

Francesco Irnem, con Multiple Fractures (2017) ci consegna un’opera con un taglio e un’asportazione che mette a nudo l’opera stessa mostrando la parete di fondo su cui essa è attaccata. Il quadro – che raffigura antichità e rimanda a reperti e archeologia – si fa ambiente e l’immagine si fa problematica: la figurazione,  cioè, si carica di significati linguistici e il frammento mancante diventa basilare solo in quanto “esiste” come intervento.

Elena Mazzi, altra finalista del citato Bando Generazione Contemporanea della LUISS, intraprende un confronto con le teorie delle fratture e dei sistemi complessi del fisico Bruno Giorgini, affrontando il caso, il caos e la trasformazione (di materia e territorio) dell’Etna, ad esempio: indica le possibilità che la distruzione porti a una costruzione ex novo di materiali, forme, volumi… A Fragmented World è una fotoincisione ottenuta dalle fratture laviche del vulcano più attivo d’Europa e con un colore ricavato dalla polvere lavica.

Giovanni Ferrario ha reso centrale l’immagine di un uovo con una crepa entro cui si scorge contenuto un altro uovo. La pelle sotto la pelle che contiene la sostanza e l’idea… Ad alto tasso simbolico, l’opera è richiamo, o meglio trattazione dell’ab origine; appunto: ab ovo

La Natura parla a suo modo nelle diverse opere di Sidival Fila e di Aron Demetz.

Il primo ha prodotto una scultura installata in orizzontale, di ricordo espressionistico ma azzerata tramite un grigio opaco da dove un lungo tronco si articola e fuoriesce ricucito e legato come frammento prezioso al supporto che lo (r)accoglie.

Di fatto il lacerto vegetale, recuperato e trasformato, pare emergere ma potrebbe essere riassorbito da un momento all’altro dal campo scultureo-pittorico.

Uscendo, nell’area terrazzata ecco fiero il mutante di Demetz (Heimat 3, 2013): una fiera e bellissima sentinella che gioca sull’equivoco del materiale che lo concepisce e, anzi, lo sostanzia; infatti, sembra legno, ma è bronzo che lo mima.

Il legno è più duttile, caldo e vivo, il bronzo più freddo e duro: entrambi i materiali sono soggetti a trasmutazioni, quasi alchemiche, e ad essere intaccati, marchiati dal tempo. Come la Natura e come l’essere umano che qui dimenticano di essere due e si riuniscono  in un corpo unico. In ogni senso.

Alessio Barchitta (un altro dei finalisti del Premio Generazione Contemporanea) ha appeso all’esterno, tra le piante, una sorta di stendardo che pare un telero ma senza narrazione figurativa.

E’ un astratto, infatti, ed è realizzato con frammenti murari ‘800eschi: derivano da un palazzo della sua città natale, Barcellona Pozzo di Gotto. Questa nota biografica e tale recupero rendono concettualistica la sua sperimentazione che è volta a salvare e rianimare i frammenti della casa – realtà e bene purtroppo non più solidi né tramandabili con certezza – e anche delle storie che vi si sono svolte e, idealmente, pure delle generazioni che l’hanno abitata.

Proseguendo all’esterno ecco un’altra casa. Felice Levini ne ha installata una, piccolina e irreale, che dondola e tintinna al vento tra gli alberi.

Un segno che appare leggero, quasi ludico, che riaccende ricordi infantili, fiabeschi, ma che custodisce una grammatica complessa e un discorso stratificato: parla dei pezzi di ognuno di noi, delle diverse esperienze e delle fasi della vita che si riuniscono in un uno – quella simbolica abitazione da funamboli – indicando che quella separazione non è mai esistita.

Scorgiamo all’esterno un totem del trash, ovvero un monumento – onestamente assai didascalico e quasi pleonastico – come monito allo sperpero e all’inquinamento umano, perché fatto di residui e scarti (Francesca Leone, Our Trash 52, 2017), e ci dirigiamo altrove.

Scendiamo in una sala sotto uno degli edifici della struttura e detta sala egizia, divenuta, in anni lontani, per un po’ tana di pipistrelli (protetti). Ebbene: proprio qui Andrea Galvani ha predisposto il suo intervento immersivo che ci rende inizialmente ciechi come quelle creaturine volanti e come loro legati all’acustica. La sala è buia e vuota di opere fisiche che sono però tradotte e lì portate a livello sonoro: un sonoro che ci avvolge completamente.

Galvani ha prima creato dei solidi – piramide, sfera, cubo – poi li ha sottoposti a esperimenti scientifici (in Germania, in un vero Istituto di Ricerca) con onde emesse dai pipistrelli per visualizzare lo spazio, la sua struttura e i suoi ingombri; sono le ultrasoniche, i cui rimbalzi su quelle sculture sono stati registrati e trasformati in una frequenza percepibile dall’udito umano; l’artista veronese ci propone, quindi, quella traccia sonora che porta in sé, e ci riconsegna, le proprietà materiali degli oggetti, i loro pieni e vuoti, la loro estensione e posizione.

Ciò che non si vede con gli occhi si può vedere in altro modo e ogni frazione della realtà, anche in questo caso, concorre a farsi unicum (non solo conoscitivo); la scultura, da parte sua, si amplia, la sua grammatica si arricchisce e si espande e colloca questo complesso lavoro in un ambito linguistico dove l’estetico c’è anche se non si visualizza in modo canonico.

Il Collettivo Curatoriale di questo felice, eterogeneo e risolto risultato è composto da:

Silvia Amato, Giulia Maria Belli, Riccardo Brunetti, Benedetta Celsa, Floriana D’Agostino, Lavinia Della Bruna, Maria Immacolata Dunia, Silvia Federici, Federica Fiorino, Francesco Gambatesa, Ginevra Isolabella Della Croce, Anna Kessler, Valentina La Serra, Chiara Martra, Giulia Olivetti, Simona Pace, Rachele Paradiso, Maria Anna Perri, Valentina Poli, Cecilia Sacerdoni, Anna Sigot, Alessia Simonetti, Claudia Staccioli, Silvia Tranchina, Isabella Vallelunga, Veronica Vasta; notiamo che è una moltitudine femminile, che in qualche misura, forse, senza nulla togliere alla presenza e professionalità maschile, ha portato la mostra  a caratterizzarsi come uno sguardo tematico di particolare robustezza coinvolgente e di profondità anche empatica

Mentre incontravo opere, ricerche e tematiche – una, seppur diversamente affrontata da ogni artista – si è materializzata nella mia testa una frase, e un concetto, che mi colpì moltissimo quando lo lessi durante la mia preparazione universitaria. Sono andata a ritrovarla perché a suo modo è un sottotesto validissimo per questa esperienza espositiva e l’argomento affrontato. La citazione è di Alighiero Boetti, in Oggi e domani, 1988:

“Uno degli errori più comuni della nostra cultura è le divisioni che essa fa nell’unità e nel suo insieme con rigide classificazioni: come il regno animale, vegetale e minerale e così via.
È una categoria mentale, una separazione, che mi sento oscura e che vela ogni possibilità di comprendere le cose.
Nella sua pretesa di spiegare, serve solo a annullare l’ampia portata di comprensione delle cose …
Dobbiamo perciò percepire questa unità nelle cose, anziché dividerle sempre in categorie e classificazioni, e soprattutto antitesi del tipo bene / male, nero / bianco.”

L’esposizione, organizzata e sostenuta dal LUISS Creative Business Center, è in corso sino al 20 dicembre a Villa Blanc al civico 206 di Via Nomentana  a Roma

  • Informazioni: masterofart.luiss@gmail.com
  • Contatti stampa:
    Floriana D’Agostino tel. 327 0083833, Lavinia Della Bruna tel. 338 3261829, Francesco Gambatesa tel. 393 1356431, Rachele Paradiso tel. 349 2559363, Maria Anna Perri tel. 329 9662409.
  • Ingresso gratuito – da lunedì al venerdì h 15.00-20.00 con ultimo ingresso h 19.15 e il sabato dalle 10 alle 14.
  • Facebook pagina dell’evento
  • Instagram @frammentazioni
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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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