Cecilia Luci, l’acqua, galleggiamenti animici, la fotografia e se stessa rivelata

Cecilia Luci (Roma, 1970) inizia la sua formazione su diversi fronti: artistici, alla Facoltà di Architettura di Valle Giulia e nel campo della recitazione. La Fotografia è però la sua grande attrazione, sin dai tempi del Liceo e poi perfezionata per dar luogo a una contaminazione originale che si concentra su ricerche improntate alla conoscenza profonda del sé, alla (sua) interiorità, all’inconscio, la psicoterapia e altri studi: tutte teorie e tecniche atte alla liberazione da tensioni esistenziali…
E’ la stessa artista a spiegare:

“La mia ricerca, nell’arte tende al superamento del mio passato: credo che ogni artista senta l’esigenza di scavare sia nella sua sia nell’altrui interiorità. Io ho via via lavorato per fare riaffiorare ricordi e toccare profondità personali…”

Cecilia ha la sua storia, dunque, come ognuno di noi ha la propria ma molti nuclei personali che si palesano nelle opere di un artista sono riconoscibili e spesso condivisi da un’intera umanità: è anche per questo che l’Arte è importante per la collettività… In fondo, una simile ricerca dentro noi stesso tendiamo a farla tutti, ognuno a suo modo e con gli strumenti che si hanno a disposizione o che si cerca di trovare: Cecilia usa pratiche particolari e poi riassume questa esperienza nell’Arte e con l’Arte. Per lei sembra essere un campo di sperimentazione e “raccogliticcio” di tali input: un po’ come la tela bianca nelle sperimentazioni degli anni ’60 e ‘70.

Cecilia studia alla scuola di Bert Hellinger le costellazioni familiari sistemiche dalle quali in seguito scaturirà molto del suo lavoro fotografico; prima dell’esperienza con Laura Quinti e Stefano Silvestri, segue un illuminante stage con Alejandro Jodorowsky. E’ lui ad affermare, in un lungo testo dove indica i suoi “Mi piace” e “Non mi piace”:

“MI PIACE sviluppare la mia coscienza per capire perché sono vivo, cos’è il mio corpo e cosa devo fare per cooperare con i disegni dell’universo.”
“MI PIACE rispettare gli altri, non per via delle deviazioni narcisistiche della loro personalità, ma per come si sono evolute interiormente.”
“NON MI PIACE la gente la cui mente non sa riposare in silenzio, il cui cuore critica gli altri senza sosta, la cui sessualità vive insoddisfatta, il cui corpo s’intossica senza saper apprezzare di essere vivo.
Ogni secondo di vita è un regalo sublime.”
“MI PIACE scoprire in ogni essere quella gioia eterna che potremmo chiamare Dio interiore.
NON MI PIACE l’arte che serve solo a celebrare il suo esecutore.”
“MI PIACE affrontare, volontariamente, la mia sofferenza, con l’obiettivo di espandere la mia coscienza.”

Questa posizione esistenziale di Jodorowsky sembra uno degli ingressi privilegiati per entrare nel lavoro di Cecilia Luci.
Prima di tutto esaminiamo le sue fotografie: tecnicamente, sono stampate su preziose e costose carte e hanno tiratura limitatissima; il processo elaborativo è lungo e quello esecutivo è metodico: l’allestimento dei piccoli set, che Cecilia crea da sola, è quasi un atto di religiosa concentrazione. Poi arrivano gli scatti, che danno corpo a immagini dalla resa estetico-compositiva pittorica – cioè: rimandano alla pittura – pur restando ben salda nel campo del fotografico. Qualcuno ha descritto queste sue composizioni come morandiane, e in un certo senso l’atmosfera lo è. Quel che è ancor più certo è che siamo nel campo di codici animisti.
Ci dice l’artista:

“I livelli dell’umano sono tre: corporeo, psichico e spirituale ultrasensibile”.

Il secondo e il terzo sono molto profondi, interiori, personali: appartengono solo a lei che li materializza attraverso un processo che dà, alla fine, luogo alle immagini nelle quali è possibile rintracciare qualcosa che appartiene a tutti noi. Una volta compresone il linguaggio e il senso, la coscienza personale diventa collettiva. Anche per via dell’acqua…
Infatti, tutti questi lavori sono fotografati dentro tale elemento che è fisico, vitale, ed è anche allegorico: lo è in ogni religione, filosofia e cultura, e si fa simbolo di vita e di morte, della separazione del mondo dei vivi da quello dei defunti raccontato nella mitologia e dalla letteratura, come l’Acheronte della Divina Commedia dell’Alighieri…
E’ sostanza metaforica della purificazione, fluido che rimanda al liquido amniotico, componente della quasi totalità della materia vivente quindi latte della madre terra, elemento primario di antichi riti, simbolo di passaggio di energie, memorie e saperi…
La Luci ha un intenso rapporto con l’acqua, dunque, che adotta come materia basilare per le sue opere: riempie un ampio recipiente di questa preziosa, vitale sostanza, vi dispone piccoli oggetti d’affezione e aspetta che essi decantino, che si dispongano casualmente e che (le) dicano qualcosa. Poi fotografa la composizione.

Spesso, gli oggetti e l’acqua si fondono, altre si differenziano nettamente; e si visualizzano ombre, riflessi, rispecchiamenti: quasi evocazioni. Il risultato è accattivante e astratto-lirico anche quando i manufatti sono riconoscibili (un pettine, una gabbietta, petali etc.). Nel caso della mostra al MACRO – ROMA (Made in Water, 2014 – a cura di Marco Tonelli e Fabiola Naldi, che segue quella di Palazzo Collicola a Spoleto del 2012 a cura di Gianluca Marziani), gli elementi sono ambigui: filamenti? Ferri? Pezzi di fibra metallica? Oppure: vetri rotti? Che altro? Non è quello l’importante, poiché essi sono sempre un escamotage per costituire un ponte…

Quando adottò, per la serie Costellazioni (appena precedenti di Lessico Animico), dei pupazzetti, essi erano quanto di più lontano da qualsiasi scelta giocosa o Pop: pur sembrando giocattoli in plastica colorata (quelli di Play Mobil, per intenderci), essi sono, invece, dei feticci usati per una particolare terapia-rappresentazione (indicata da Bert Hellinger e messa a punto da Doris e Lise Langlois e, in Francia, da Anne Schützenberger, docente ed esperta di psicoterapia di gruppo e dello psicodramma). Tale esercizio scava nell’inconscio del praticante ma anche andando a ritroso nel tempo, rintracciando quello familiare e giungendo sino agli avi. Ciò si riassume some Psicogenealogia, che riflette quanto la famiglia sia radice personale imprescindibile e uno dei più potenti archetipi della storia…

“Sì, nessuno di noi è separato dai legami del passato – nel bene e nel male – perché sono tutti concatenati, interdipendenti dal contesto e dalla storia familiare, anzi: genealogica”.

Così chiarisce Cecilia Luci, che passa attraverso questo esercizio, lo evidenzia con il suo lavoro e lo consegna al pubblico. Si tratta di una messa in scena riprodotta da questi oggetti-rappresentanti che evidenzierebbero le dinamiche inconsce che producono sofferenza in molti aspetti della vita (relazioni affettive e professionali, rapporto con il denaro e con la salute etc).
In tale ottica si inserisce anche la serie Radici – L’albero della vita, dove gli oggetti fisico-simbolici preponderanti sono i guanti da lavoro, di gomma, spesso colorata, che in queste opere particolari alludono a una coppia genitoriale…
Stessi rimandi nei suoi oggetti familiari d’affezione (un pettine nero da uomo, una lente d’ingrandimento, una gabbia), messaggeri evocativi che ritroviamo, per es. in Dal passato.

Sono belle le nuove opere di Cecilia esposte al MACRO, l’allestimento ci mostra al meglio i suoi segni-struttura organizzati come composizioni astratte, del tipo – come abbiamo precedentemente accennato – lirico. Se l’Astrarattismo di Forma 1 (1947) nel proprio Manifesto affermava: “A noi interessa non il limone ma la forma del limone”, Cecilia bada, invece, proprio al succo… (un liquido anch’esso!)

Succo a iosa anche in Milk: è il latte, bevanda che condivide la consistenza liquida dell’acqua e del vino…
Commenta:

“Infatti: l’acqua è il latte della Madre Terra…”

In Milk sono i petali di rosa a galleggiare, come cosmogonie alchemiche ma forse più come una danza, a la Matisse, laddove l’artista di Le Cateau-Cambrésis, nelle due versioni de La danza (Museo of Modern Art, N.Y., 1909 e Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo, 1909-1910), non descrive un fatto ma, attraverso la composizione e il colore esprime il prorompere inarrestabile della vita, il suo eterno movimento, il continuo rinnovarsi… similmente al pensiero della Luci. Acqua, latte, ciclo della natura (le rose) qui sembrano entrare perfettamente in quest’ottica…
In Trino e Immaterico, altro ciclo dell’artista, si va ancora più su: a piccole sfere che danzano anch’esse, nel liquido, e come corpi celesti o terrestri, cercano (cercano?) La Particella di Dio (titolo di una delle opere).
In Nell’angolo, l’oggetto fisico-simbolico prescelto per la messa-in scena da fotografare è il Mikado o Shanghai, tra i passatempi dei bambini e sicuramente anche dagli adulti. Apparentemente semplice da giocare, richiede dosi notevoli come la pazienza, l’attenzione, la leggerezza ma anche la fermezza: i bastoncini si raccolgono bene se sono tanti e insieme e così possono farci vincere; quando risultano separati e via via sempre di meno, è tutto più difficile e talvolta chi arriva alla fine rischia di perdere! L’allegoria è palese, ma di queste immagini così generate si può e si deve godere anche per la loro bellezza, l’equilibrio calibrato di forme e colori, la trasparenza dell’acqua e in alcuni momenti/riquadri, della loro vividezza cromatica.

Memorie ha un titolo più manifesto delle altre serie: l’oggetto fisico-simbolico adottato è del fil di ferro, un richiamo al lavoro, alla manualità del fare…; abbiamo quasi una sorta di famigliola di fili di ferro nell’acqua, gruppi, grovigli… Ma via via, la matassa si distende, si apre… e sembra persino respirare (si veda l’atmosfera al MACRO)…

Margini nasce da un incidente, il caso – duchampiano – a cui Cecilia dà un valore di rivelazione; un vetro, il primo, che si ruppe… e l’uso di nuovi vetri in frantumi come un’indicazione di passaggio da uno stato a un altro (alchimia?). Se “c’è una crepa in ogni cosa”, come canta Leonard Cohen, egli ci assicura che “è proprio da lì che entra la luce”: sembra decisamente che la Luci danzi questi versi, ci faccia danzare queste sue opere più trasparenti delle altre, e accetti (o accenda) una simile luminosità.
L’artista sorride…

“Sì, la ricerca nel mio lavoro tende al superamento del mio passato, facendo riaffiorare inconsci ricordi. Il vissuto viene trasportato dai fluidi che a volte affondano, a volte fanno affiorare le cose e i personaggi attraverso dei flash, delle apparizioni, delle visioni scaturite nella mente. Trasmuto e ricostruisco un mondo immaginifico fatto di elementi tratti dalla memoria. Così questo mio costante ritorno al passato e ad un ripristino, mi fa rivisitare e ridisporre fatti, cose e persone, legate a luoghi interiori familiari, metabolizzate attraverso diversi codici semantici.”

Codici belli, complessi e sostanziali, come l’arte deve produrre, se essa è – fidandoci di Leonardo da Vinci – prima di tutto: “cosa mentale”.

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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