Giancarlo Neri. Quando il gioco si fa duro, l’Arte si fa morbida. Apparentemente

Giancarlo Neri, dalla mostra Latinorum, Case Romane del Celio, novembre 2014, Courtesy takeawaygallery

Napoletano classe 1955, Giancarlo Neri, che attualmente vive a Roma, è stato a lungo negli States: nel 1978 si è trasferito a New York dove ha studiato alla Art Students League e dove ha risieduto fino al 1996. Qui sembra non essere stato indifferente a un certo influsso scultoreo-installativo di Claes Oldenburg, ma solo per la sua capacità di coniugare micro e macro, dimensione pubblica e mondo privato (intimo), profondità (dell’Arte) e leggerezza (apparente).  Ma Neri ci tiene a sottolineare, con un caustico sorriso:

“io ho sempre adorato la Pop Art, ma Oldenburg, nella mia classifica personale, è sempre stato all’ultimo posto…”

Approfondiremo più avanti, riprendendo qui la parabola-Neri, che ha nel 1983 la prima mostra personale alla Kornblee Gallery di New York, che innesca la sua lunga attività artistica; iniziata sulla strada della pittura, si è via via allargata, diramata, aprendosi sempre più verso lo spazio: si farà arte pubblica.

Neri realizzerà e  realizza installazioni site-specific di grande mole; la sua platea è internazionale:  U.S.A., Sud America, Europa e qui, Italia. Negli Stati Uniti è stata importante l’esperienza con il PS1 nel 1989, nella Clock Tower di Manhattan, e poi dopo in Canal Street, dove crea H.T. giocando nella particolare ambientazione architettonica e urbana creata da tre palazzi. Ma è a Napoli che si sbizzarrisce alla grande: alla mostra d’Oltremare del 1990 allestisce una totemica parata di sedie luminose inerpicate per circa 38 metri sulla facciata della torre. Con questo lavoro entra in sintonia con Graziella Lonardi Buontempo che lo porta nel 1991 a Capri e gli consegna (all’interno del Premio Malaparte) Via Krupp: lungo questa serpentineggiante strada, egli posiziona 180 sedie su cui ha montato delle lampadine che illuminano d’immenso il celebre percorso caprese.

Tra altri interventi più conosciuti e ammirati si pone Lo Scrittore a Villa Ada a Roma (nel 2003; poi realizzato a Londra nel 2005 e ora in esposizione permanente alla Villa Reale di Monza): enorme sedia con scrittoio che richiama le atmosfere giocose delle fiabe. Oldenburg è talmente essenzializzato e altro che è neutralizzato (e non parliamone più) mentre il nostro strizza l’occhio al desiderio di un rinascimento italiano (forse…), e sicuramente si abbandona all’irriverenza del riso, e all’iroia, come il cavallo(ne) lasciato a navigare nel Golfo di Napoli (Cavallone, per il quale hanno collaborato i ragazzi del carcere minorile).

Rigorosamente e originalmente Made-in-Neri è anche l’opera – tra le sue più note e fotografata da tutti i turisti e i romani – Massimo Silenzio al Circo Massimo (Roma, nel 2007, poi a Madrid l’anno dopo, a Dubai nel 2009 e a Rio de Janeiro nel 2012), che proponeva un numero spropositato di globi bianchi che, al calar della sera, si accendevano mutando la luce e creando un effetto surreale, interagendo con l’area del Circo Massimo e facendola rivivere degli antichi splendori. Nel e con il paesaggio, l’opera illumina e rigenera.

Lo riesce a fare anche quando si tratta di luoghi feriti, in ogni senso: a Bagnoli (Napoli), all’Italsider. Qui partorisce un enorme un buffo fantoccio metallico che sembra incarnare l’ottimismo di Gerard Richter (“L’arte è la forma più alta della speranza”). Pasquale (1998), sul pontile Nord dell’ex fabbrica, costruito con materiale recuperato dalla stessa azienda siderurgica, sta in piedi anche grazie agli operai, quelli che hanno contribuito a realizzarla, ai quali l’opera è dedicata e che l’hanno profondamente capita.

Anche questo ci conferma quella leggerezza e quell’ironia di cui abbiamo parlato a riguardo della prassi artistica di Neri. Questi due vocaboli sono caratteri che egli usa come dei grimaldelli con i quali riesce a colpire al cuore e a coinvolgere il mondo dell’arte e il grande pubblico allo stesso tempo: il suo lavoro è, quindi, popolare ma senza popolarizzarsi, come auspicava già, e saggiamente, Oscar Wilde (“L’arte non può mai cercare di essere popolare. E’ il pubblico che deve cercare di diventare artistico.”).

Neri lo sa e lo fa: vi è riuscito pure in una mostra canonica, ovvero da galleria (Stefania Miscetti a Trastevere, Roma), titolata Parole Parole. Qui ci dimostrò, baloccando con i lemmi e l’italiano, e con la pittura, che l’utopia è sempre realizzabile (“Le utopie – diceva Lamartine  – non sono altro che verità premature”): stavolta, solo se prima si sgombra il campo dalle incertezze o dalle vigliaccherie (vi alludeva nel quadro La solita via di mezzo), dalle emergenze (Compro Ora) e dalle contrapposizioni (Me Ta) e dai fondamentalismi inutili e beceri; a tal proposito, si veda l’acrilico Accà e Allah: alla luce di quel che è avvenuto e avviene di terribile oggi, è quanto mai attuale e il suo significato si attualizza ogni volta…

Con quella personale romana e quelle pitture, e anche con le sue sculture e installazioni, Neri –  ribaltando i segni e il linguaggio quotidiano, della comunicazione, della stessa Arte e della sua Storia –, palesa una scaltrezza e un sarcasmo – mi cito – “partenopei” che sono materiale con cui contribuisce a fare le sue opere. Qui sembra trapelare qualcosa della sua storia pregressa, di un’infanzia che ora torna sotto forma di sognanti ricordi che si solidificano come sculture immaginifiche, installazioni fuori scala, da vertigine, ambientazioni d’atmosfera onirica, sull’acqua o illuminate e illuminanti. Neri dà corpo e anima a un mondo creativo, visivo e poetico straniante. L’arte finisce dritta dritta nel territorio degli uomini, nella vita, e quella, la vita, si fa risucchiare nell’Arte: i Futuristi ci videro giusto, e pure Neri… Per questo la sua ricerca è collocabile, a mio avviso, su un crinale creatosi tra Fortunato Depero – tra futuristi il più ludico –, Ettore Petrolini – e non a caso, questo funambolico, dissacratore del lessico piaceva ai futuristi con cui collaborò –, Marcel Duchamp e Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie e di Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò (al di là dello stesso scrittore, Lewis Carroll, pure fotografo – pittorialista – un po’ monotematico, che nella biografia è più serioso e forse meno raccomandabile di Neri). E dunque: il pubblico cosa potrebbe trovare dietro lo specchio di Neri, sotto la pelle simbolica delle sue tele, dei suoi lavori? Quella fantasia al potere di cui accennammo prima. Di che potere si tratti è presto detto: antagonista.

Già, perché questo artista, pur celebrato in gallerie d’arte, Musei e contesti istituzionali, è un indipendente da sempre, un irregolare, libero guastatore di equilibri e dimensioni consolidati e di alfabeti (artistici) sul filo del surreale. Meglio ancora: egli avanza posandosi, anzi zoomando, sul reale di cui ci svela l’intima o pubblica bellezza una volta che tale reale è visto da nuove prospettive, da angolazioni sghembe, possibilmente liberato dalla mediocrità, dall’ovvio, dal cacofonico, dal coattume-pattume che spesso è più cattiva abitudine – non solo linguistica – che non vera rozzezza (Un attimino è l’eloquente titolo di un suo quadro). Neri, insomma, con le sue scritte dipinte e desemantizzate, con le sue seggiole giganti, i suoi cavalli a dondolo in mare, i suoi tavoli ciclopici, le sue sedie in fila a New York o a Capri, le sue lucine come lucciole d’estate a rischiarare il Circo Massimo, il Cretto di Burri e strade autonome, ci dice che sognare è cosa buona e giusta ma, pure, che fermarsi a questo primo stadio inutile, perché, come sosteneva, a ragione, Adriano Olivetti:

 “Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande”.

Neri pare proprio aver fatto suo questo pensiero. Che torna ad esibirsi ogni volta: in una mostra a Roma, nel complesso ipogeo delle Case Romane del Celio, per esempio, che diviene campo di un accadimento quasi magico, in un percorso di svelamento, sorta di caccia al tesoro a cui si invita il pubblico a partecipare per individuare opere disseminate negli angoli più significativi del sito archeologico. Vero e verosimile, realtà e parvenza, disinganno e illusione si spintonano – viene la voglia di dire – di fronte a questo e, più ampiamente, a tutto il lavoro di Giancarlo Neri. Ancora – in questo che è il secondo appuntamento per il ciclo di tre progetti a cura di Takeawaygallery in questo luogo bellissimo ancora poco conosciuto di Roma -, Neri entra con la sua solita leggiadria pesante (nel senso di densa di significati, complessa). Con Latinorum, trasforma la percezione consueta (e turistica) di venti stanze sotterranee, storicamente caratterizzate, e vi posiziona serie di sculture di medie e piccole dimensioni, tutti dalle sembianze quotidiane e appartenenti al tempo e al mondo contemporanei (c’è persino il gioco Calcio, che Neri ha più volte raccontato da par suo, ricordando così anche la sua prima passione giovanile). Sono dipinti in oro (come, diversamente ma con una qualche sintonia, il giovane Michele Welke aveva fatto, con attenzione politica, al MAAM_Museo dell’Altro e dell’Altrove a Roma e al Cantiere Barca a Torino). L’oro nobilita la banalità dell’oggetto d’uso comune e, in questo spazio ipogeo, illuminato ad hoc con indirizzamento sulle opere, ne evidenzia la preziosità trasformando ogni manufatto in un reperto, ma appartenente al mondo moderno: quasi a ricordare (commemorando?) i pionieri dell’archeologia che ritrovavano la storia e la cultura umane grazie a questi ritrovamenti. In tal maniera, è verosimile che l’artista omaggi un luogo ancora tutto da scoprire o riscoprire (le Case Romane al Celio) creando un ponte: con un’audacia visuale che incastra l’elemento estraneo in un contesto antico e museale praticando la sfida guascona di dare costrutto e direzione a ciò che in quel luogo e quella situazione non ne ha (avrebbe). Negli anni della sperimentazione anni Sessanta, questa operazione veniva detta decontestualizzazione e ricontestualizzazione e apparteneva alla sfera concettualistica. Neri non è poi così lontano da quella metodica, che, semmai, egli scalda con riflessioni altre e con una certa teatralità che tutte le sue opere avviano. In particolare, in Latinorum“sfrutta lo spazio articolato per generare effetti sorprendenti di luci, quinte e stacchi, dando l’impressione di un palcoscenico su cui si sta recitando.” (cit., C. Monteverde). Già, recitando: che cosa? Ma certo: la vita… Qui con modalità più discreta, direi morbida, e concico (“Le arti, quando sono sane, sono succinte.” – Ezra Pound).

Alla base di ogni esposizione e in ogni installazione di Neri c’è una scelta di lavorare Site-Specific: non sempre, ma quasi sempre, e quando ciò avviene l’opera(zione) diventa più pertinente e potente. Così, con il lavoro per le Case Romane del Celio, volto anche a rinverdire e a valorizzare la fruizione del sito, l’attitudine monumentale e soprattutto pubblica dell’artista si rinnova, ribadendo la sua capacità di coniugarla a una visione e concezione che può sembrare opposta: dell’intimità e della quotidianità. Quando questa unione c’è e funziona, nella ricerca di Giancarlo, avviene una sorta di magia: l’Arte si fa affabulatoria, quella vita che vi è contenuta (e la contiene a sua volta) si palesa stra-ordinaria e l’autore, il cappellaio matto, diventa l’artefice incontrastato di questa rivelazione. Come? Indicando con il dito (le opere) la luna (il nuovo punto di vista sulla realtà e la sua illusione) e, talvolta, l’uno e l’altra…, pardon: Luna e l’altra (Luna e l’altra è l’installazione luminosa sopra Castel Sant’Elmo a Napoli, per il Maggio dei Monumenti, 2008 che inquadrava accanto all’opera la luna vera).

 

La mostra Latinorum di Giancarlo Neri, inaugurata il 29 novembre 2014 e prorogata sino al 16 marzo 2015, a cui si fa riferimento, è alle Case Romane del Celio, ingresso dal Clivo di Scauro, Roma; orari: giov – lun 10.00 / 13.00 – 15.00 / 18.00 – chiuso mart e merc; ingresso: biglietto intero 6,00 € – biglietto ridotto 4,00 €. Dal 29 novembre 2014 fino al 16 febbraio 2015. Sotto l’alta sorveglianza del MiBAC Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo – Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. Patrocinio: Ministero dell’Interno – Fondo Edifici di Culto.
Progetto Takeawaygallery – a cura di Carlotta Monteverde; Organizzata e promossa da Takeawaygallery e Spazio Libero;
Sponsor tecnici: SPEDART – Servizi per l’Arte; UNISIS srl – Impianto luci; Lighting design: Paolo Di Pasquale _ http://www.paolodipasquale.com/;
Progetto grafico: Aurelio Candido. Ringraziamenti: Glauco Isidori e Andrea Viviani.
Sito: www.caseromane.it
Contatti: info@spazioliberocoop.it; takeawaygallery@gmail.com

Il Sito di Giancarlo Neri: www.giancarloneri.com 

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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