In che senso italiani lo definiscono alla Bibo’s Place di Todi. Recensione e intervista ad Andrea Bizzarro e Matteo Boetti

A Todi, nel bel Palazzo Pensi, storico complesso cinquecentesco in Piazza Garibaldi, in quella che fu la sede della galleria d’arte di Giuliana Soprani Dorazio, è aperta  dal maggio 2013 la Bibo’s Place, nata dal sodalizio tra Andrea Bizzarro e Matteo Boetti. Diviso in due aree collegate da un androne che media tra due zone espositive: a sinistra si inanellano stanze collegate, cuore della galleria, e a destra un’altra serie di ambienti che, tutti insieme, sono stati adibiti a project room. Attualmente vi sono esposte le rare opere di Francesco Lo Savio, genio di cui non è ancora riconosciuta pubblicamente la pionieristica, complessa grandezza.

Dopo la sua morte il suo lavoro è stato meglio compreso e le mostre, tutte di livello altissimo, si sono succedute con una certa regolarità: dalla prima retrospettiva curata nel 1965 dall’amico critico compagno di viaggio Filiberto Menna al Palazzo delle Esposizioni in seno alla Rassegna di arti figurative, a quella voluta da Germano Celant per l’apertura del Padiglione d’Arte Contemporanea a Milano nel 1979, non dimenticando le presenze di sue opere in prestigiose iniziative espositive anche internazionali – a Kassel nell’ambito di Documenta IV del 1968 a Venezia alla XXXIV Biennale d’Arte e poi all’edizione XXXVI, quella del 1972, a Roma alla X Quadriennale – e la retrospettiva che, curata da Bruno B. Corà diede avvio nel 2004 la riapertura del Museo Pecci di Prato. Dopo la più recente – si fa per dire: data 2009 – grande retrospettiva al Museo Reina Sofia di Madrid a cura di D. Soutif, non è facile vedere tante opere di Lo Savio tutte insieme perché l’artista non produsse molto, quindi i suoi lavori sono rari, nelle mani di colti collezionisti e in musei; doppiamente chapeau ad Andrea Bizzarro e Matteo Boetti che sono riusciti in questo piccolo miracolo.

I due confermano il proseguimento di una ideale mappatura che mette a confronto generazioni diverse affiancando opere di artisti storicizzati – in questo caso, appunto, Lo Savio – a quelle di più giovani protagonisti; hanno concentrato ancor più puntutamente questo concetto con la collettiva In che senso Italiano? (ancora!), che si connette alla serie di mostre In che senso italiano?…, piuttosto note a chi ha vissuto o comunque conosce gli anni Novanta romani, quando la città tornò ad essere a suo modo fulcro di sperimentazione di emergenti, di storici e critici d’arte – ché allora ancora non si era avvezzi all’abuso del termine “curator” –, di galleristi e addetti-ai-lavori che accompagnarono la città sulla strada di una rinata vivacità culturale e di belle speranze. Le cose poi cambiarono, più o meno velocemente, per via delle tante crisi, non solo economiche, e di un Sistema dell’Arte camaleontico che, sempre più angloamericanocentrico, si orientò su grandi strategie per ancor più selezionati eletti… Ma questa è un’altra narrazione; quella a riguardo della prima versione di In che senso italiano? si  tenne  un ventennio fa: nel binomio 1995-1997. Fu curata alla storica galleria romana di Anna D’Ascanio in Via del Babuino da Matteo Boetti: figlio d’arte – di Alighiero e di Anne Marie Sauzeau – musicista, produttore di iniziative d’arte e video e di connessioni contaminate, gallerista con più spazi e modalità espositive a Roma. Allora egli selezionò molti degli artisti di base a Roma e a quei tempi più attivi e interessanti, inserendoli in un’iniziativa che si poteva intendere come un suggerimento non tanto di una italianità ma di una possibile ri-centralità del contemporaneo fatto in Italia per ribadirne il posto all’interno di altre e potenti dinamiche internazionali. Guardando, in tempi di estreme rarefazioni estetiche fatte di neo-neo concettualismi, minimalismi e simili, all’opera-quadro, coraggiosamente alla pittura, non postmoderna e con un suo portato intellettuale.

Oggi, con In che senso Italiano? (ancora!) – si ripropone qualcosa di simile e interfacciando a un maestro le ricerche di artisti del decennio Settanta-Ottanta: Silvia Giambrone, nata ad Agrigento nel 1981, vive e lavora a Roma; Matteo Nasini, nato a Roma nel 1976; Leonardo Petrucci, nato a Grosseto nel 1986, dal 2012 lavora nel suo studio presso il Pastificio Cerere nel quartiere di San Lorenzo a Roma; Luana Perilli, nata nel 1981 a Roma dove vive e lavora; Alessandro Piangiamore, nato a Enna nel 1976 ma di stanza a Roma; Mariagrazia Pontorno, nata nel 1978 a Catania, vive e lavora a Roma; Lorenzo Scotto Di Luzio, nato nel 1972 a Pozzuoli e vive e lavora a Berlino; Chiara Mu, nata a Roma nel 1974, ha vissuto a Londra per 10 anni. Il senior del dialogo  emerse negli anni Sessanta come un faro tra altre luci nuove: volte, tutte, a una “eliminazione dell’io dal quadro” per superare il magmatico materismo, il corpo-a-corpo con la pittura, l’espressionistica azione sulla tela, l’Informale,  per esprimere inedite modalità dell’arte. Francesco Lo Savio, i tanti autori della cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo – che Scuola non fu mai –, i poveristi poi, cercavano, nel fatidico decennio Sessanta-Settanta, un loro posto paritario nell’agone internazionale. Qui, la predominanza della Pop Art americana e inglese (che per onor del vero la precedette) palesò la sua muscolarità (pure delle sue protezioni) sancita anche con la famosa Biennale del ’64. Lo Savio, che si era iscritto ad Architettura – nonostante non abbia proseguito questo corso di studi –, si fece forte di questa propensione architettonica: portò quindi avanti, sia attraverso tre cicli pittorici (Spazio-luce, Filtri e Metalli), sia con il prototipo abitativo la Maison au soleil (1962) e Articolazione totale, le qualità e il senso della luce, della forma e dello spazio. Tali elementi furono considerati nella loro specificità e nei loro scambievoli rapporti, non dimenticando quelli con la società e con le sue configurazioni: per dominare l’irrazionale, per attivare dispositivi di purezza dove fare agire l’uomo e  accadere le cose nella maniera potenzialmente più equilibrata e perfetta possibile. Lo Savio diede una sua struttura ad una sorta di pulizia dello sguardo come pulizia del pensiero e, quindi, probabilmente, come azione etica. Assolutezza somma portata alle estreme conseguenze, che nella vita egli scelse di praticare sino a quel fatidico terribile 21 settembre del 1963, quando morì, dopo nove giorni di coma, a Marsiglia: suicida. L’artista che volle, fortissimamente volle far combaciare “[…] antillusionisticamente, lo spazio virtuale con lo spazio reale […]” (in: F. Lo Savio, Spazio – Luce: evoluzione di un’idea, I, Roma 1963) dirigendo in esso la luce e rendendo materializza e “oggettuale” (ibidem) la pittura, è dunque il prescelto per un confronto generazionale. Tutto italiano. A tal proposito chiediamo ad Andrea Bizzarro e a Matteo Boetti:

Barbara Martusciello –  In che senso Italiano? Cioè: è emersa, attraverso questi artisti, una visione di qual è, se c’è, un comun denominatore italiano, e del significato intrinseco ed estrinseco dell’italianità?

Andrea Bizzarro – Ti racconto quello che mi ha detto un frequentatore assiduo della galleria, che è un fine conoscitore e storico dell’arte; guardando le opere di Alessandro Piangiamore, vi ha rintracciato “qualcosa di Mafai!”. A ben guardare, pur lontani formalmente e nei temi, una certa analogia tra le due produzioni emerge: per gusto tonale, ad esempio. Si tratta di una linea che, probabilmente, non è calcolata ma è dentro la ricerca degli artisti, è una radice… Questo nostro è un esperimento ed è inevitabilmente parziale, data la selezione di artisti invitati non così ampia, ma ha evidenziato una specie di sottile continuità. Penso alle opere della Giambrone, con questa poesia che hanno gli oggetti, che sono evocativi, come a conservare una loro memoria di base… Morandi, la Metafisica in qualche misura ci rientrano… E penso alla Pontormo anche ha, con la sua analisi sociale, qualcosa che la lega alla sua tradizione siciliana, alla sua terra… Non so se questo sia consapevole ma in qualche modo è filtrato.

B. M. – Tutti hanno prodotto oggetti-d’arte, a parte Chiara Mu che ha attivato performances; in ognuno dei loro lavori il concetto che li sostanzia si palesa con una certa bellezza: anche questo è qualcosa di molto italiano; e hanno superato quella scelta che in anni passati ha predominato: un disconoscimento proprio della bellezza per privilegiare e valorizzare, per contrasto, il suo contenuto più concettualistico…

A. B. – …verissimo. Sembra qui superato quel lontano senso di colpa per recuperare la bellezza in / di un quadro, una scultura, un’installazione o una performance…

Matteo Boetti – Aggiungerei che ogni titolo di mostra diventa  uno stimolo per gli artisti, pretesto verbale sufficientemente pungolante per confrontarsi su alcune questioni più generali. Non si tratta, cioè, di un rigido schema da seguire ma una sorta di guida tematica a maglie larghe…

B. M. – …larghe, sì, ma in ogni caso una direzione di senso verso cui, mi risulta, avete indirizzato gli artisti o secondo la quale avete scelto alcune delle loro opere…

M. B. – Eccome! Indirizzato o selezionato: ad ogni modo, per questo tema, non c’è una risposta univoca perché l’italianità – in questo o in altri casi – non ha ferrei canoni di riconoscibilità, nulla di troppo univoco…

B. M. – Gli artisti in mostra come hanno dialogato con voi e con Lo Savio?

A. B. – Hanno dialogato benissimo!

M. B. – Sì, benissimo. Piangiamore eccolo con il vuoto, con il positivo/negativo: il negativo dell’immagine che diventa protagonista; Luana Perilli ha scelto l’assoluta posizione delle forme che dà luogo a una nuova forma che poi viene declinata e sviluppata a colori, tridimensionale, in ceramica… La Pontorno è la sovrapposizione delle carte da lucido che crea un’immagine che si vede bene solo in trasparenza; ognuno degli artisti invitati, cioè, ha trovato il suo aspetto losaviano preferito, e questo è frutto dei loro singoli talenti, della loro sensibilità, ma è stato anche merito dei nostri vari studio-visit – di Andrea e me – pressanti e puntati sulla loro produzione più in linea con il tema dato. Questo credo faccia parte del compito del gallerista che non è solo promotore e venditore ma è un po’ anche curatore…

B. M. – …un gallerista storicamente come un compagno di viaggio dell’artista?

A. B. – Uniamoci anche quello di pungolo, di fornitore di stimoli. Noi abbiamo visto che fatto il nome di Lo Savio gli artisti hanno aderito con entusiasmo, si sono messi in gioco, e se non avessimo proposto loro questa idea probabilmente non si sarebbero interrogati su alcuni punti sia losaviani, sia relativi alla loro specifica ricerca…

Chiara Mu, per realizzare le sua performance, è stata settimane chiusa a studiare nella biblioteca della GNAM (Galleria d’Arte Moderna di Roma), ha visto tante volte le opere, sfogliato i cataloghi… ora sa tutto! Stesso dicasi della Giambrone: quando è venuta da noi con il suo progetto, ha testimoniato il suo interesse per l’assolutezza della forma di Lo Savio proponendoci una sua declinazione, ovvero una trappola per topi. Siamo rimasti un po’ perplessi, ma lei ci ha spiegato che nelle opere di Lo Savio lei vede un’assolutezza definitiva in cui la forma corrisponde con la funzione e la funzione è conclusiva. Assolutezza dell’assoluto. Fatale. Ecco, dunque l’associazione alla trappola-per-topi…

Andiamo a vedere opera per opera, artista per artista, quali sono le singole proposte in questa In che senso Italiano? (ancora!) e in relazione con la poetica di Francesco o Savio.

ALESSANDRO PIANGIAMORE è presente con opere scelte ad hoc dai galleristi. Esse, nonostante non siano, quindi, realizzate pensando ai temi losaviani, funzionano e in qualche misura li evocano. Al centro della sala campeggia una Primavera: scultura in vetro, biomorfa, soffiata a proprio gusto da maestri vetrai che vi hanno inglobato un’essenza particolare mescolata dallo stesso artista unendo differenti tipi di profumi taroccati, di quelli a imitazione degli originali griffati. La componente del caso è una variabile importante in questo lavoro – come in moltissimi altri di Piangiamore – ma qui il caso si fa noncuranza: rispetto a chi realizza la conformazione finale e alla stessa forma ultima. Essa vale e ha senso e sostanza a prescindere, grazie alla sua pura evidenza: in questo caso luminosa come il vetro colpito dalla luce – ecco un elemento losaviano – che ne fa vibrare ogni lato. In ciò si ricava un gareggiare tra positivo e negativo – ecco un altro input losaviano – come si vede anche negli enigmatici quadri che corrono lungo le pareti: in una serie si rileva un intenso colorismo, in un’altra vibrante luminosità. I primi sono realizzati con cera liquida che, una volta rappresa, dà origine a forme inconsuete, imprevedibili, che richiamano  mappe; i secondi similmente rimandanti a mappature, territori con lo spazio dentro, nelle fessurazioni materiche, nelle concrezioni, nei conglomerati… Lo Savio sembra celebrato in questa sorta di costruzione di spazi pittorici fatti di una loro speciale purezza  e naturalezza.

LUANA PERILLI espone sculture sgargianti, dalle forme vagamente biomorfe, sghembe, giocose, che sembrano quasi sgorgate casualmente da capricci della Natura; questi suoi Solitary Shelters si interfacciano a opere a parete fatte di sovrapposizioni di forme, parimenti molto colorate, ma più nette, ritagliate, rese da carte opache e da  veline: sono una delle fasi bozzettistiche per le ceramiche. Le ricordano, dunque, com’è ovvio che sia, ma non le replicano: bastano a  se stesse, in autonomia. Attuano spazi fantasiosi, bidimensionali, creati grazie al disegno e ad accavallamenti di sagome piatte, e si interfacciano con le connesse tridimensionalità reali (le sculture). Queste carte sembrano richiamare le bidimensionalità di Lo Savio, la sua allusione alla terza dimensione e alla sua concretizzazione in vera e propria formalizzazione spaziale. Tanto è per Lo Savio ideale, pura ed essenziale, quanto per Luana è più piena, quasi chiassosa, ad accogliere la bellezza – eccola di nuovo! – di una Natura nelle sue sfaccettate (imprevedibili?) compenetrazioni ed evoluzioni, peraltro diversamente affrontate anche da un certo Design storico. Stiamo guardando strutture organiche che in ogni caso trattano di vita, di possibilità di spazi di decompressione e di realtà alternativa. In fondo, Lo Savio stava cercando un po’ anche questo, che in vita non fece in tempo a trovare, purtroppo, ma nell’Arte…  assolutamente sì.

MARIAGRAZIE PONTORNO si confronta con altri spazi, stavolta ricreati, prendendo in prestito siti archeologici martoriati: l’artista li riconduce fotograficamente, rielaborati con una resa leggera, velata. Sembra di vedere, in queste eleganti e terribili figurazioni una ricerca sulla perdita (della bellezza, anche), sulla sparizione, sulla memoria, dunque sul fluire del tempo  – una delle analisi comunemente portata avanti dall’artista  – che sono rievocati parimenti a quei luoghi da lei rappresentati come assolutizzati: spazi inizialmente non ideali ma diventati  tali grazie al procedere dell’arte e, poeticamente, dall’agire della reminiscenza, da quel che si vide e si sa (Palmira, per esempio) che è riconsegnato evanescente. Già: proprio come i ricordi. La Pontorno sembra indicarcelo con superbo ingegno scegliendo, come ha fatto, la sovrapposizione della raffigurazione su carta da lucido; questa, da “superficie raccogliticcia”, come lo erano certe monocromie anni Sessanta che ospitavano ricalchi di forme, immagini di riporto come lo sono queste della stessa artista, si apre e convoca, per tale sua trasparenza e le immagini impressevi sopra, la terza dimensione. Ed ecco ancora una volta Lo Savio.

SILVIA GIAMBRONE propone oggetti in cui forma e contenuto – si diceva – coincidono. Evocativi, misterici, inquietanti, fanno inizialmente pensare a certi metafisici enigmi e alle perfette, silenti, figurazioni (pretestuose) di Morandi. Tanta italianità si scopre però altra cosa come se all’improvviso una poesia scarna e intensissima virasse verso la narrazione e questa si scoprisse noir. Similmente, i guanti per lavare i piatti, la forchetta, la mezzaluna, un gomitolo, che l’artista ci mostra, svelano la loro terribilità quando e se adoperati in maniera feroce e definitiva per ferire, uccidere, fare male entro le pareti domestiche. Una quotidianità segreta del dolore, ci dà la Giambrone: che però isola queste configurazioni come insignificanti presenze oggettuali, riportandole al verso poetico essenziale. Lapidario. Da cui è impossibile sfuggire come in una… trappola per topi, per la memoria, per l’interpretazione: in ogni caso, qualcosa dalla forma e dalla funzione – come insegna Lo Savio – assolute.

MATTEO NASINI porta avanti un’assolutistica analisi linguistica sugli elementi dell’arte – segno, forma, colore, spazi, rapporti – e soprattutto, in questo caso, coloristica che, in quanto musicista di razza, come egli anche è, bada alla vibrazione che in queste opere è quella cromatico-luminosa. Losavianamente, anche considerando il concetto di trasformazione, che nel suono, certamente, e nella luce, nello spazio, nel tempo, nella Natura e nella vita, nonché nel processo quasi alchemico dell’arte, ritroviamo diversamente ma ogni volta. Nasini lo sa bene, avendo lavorato intensamente anche sulla musica del vento (con apparati sonori eolici ad hoc)… La trasformazione, si diceva: essa appartiene anche al caso; questo interviene in maniera più manifesta nei lavori di Nasini fatti con le matasse di fili colorati, che congelano il gesto che le lancia nel vuoto immediatamente fissandole sulla superficie bidimensionale. Se ne ricavano avviluppamenti quasi materici di fili, qualitativamente espressivi, irriproducibili una seconda volta, mai uguali, che rimandano a una casualità attivata dall’uomo e dall’arte che possono progettare ma sempre troveranno incognite che l’ambiente aprirà davanti, intorno. Con questo, la ricerca di una geometria spaziale e di un’armonia in cui ogni cosa è sintesi e fusione dovranno farci i conti, come Lo Savio ha fatto e Nasini diversamente fa.

LEONARDO PETRUCCI, che, nota Matteo Boetti, “ha la stessa età di quando morì Lo Savio, come a dar corso a una specie di passaggio del testimone,  positivo”, qui espone una serie di opere dove si ricava un po’ tutta la sua poetica interessata al  “rapporto tra arte e alchimia” e anche alla biologia, alla fisica quantistica e all’astronomia. Alcuni lavori sono realizzati attraverso segno e disegno, con un intervento di sottrazione di parti della superficie pittorica; altre hanno compagnie geometrica netta e inserimento di specchi. Nelle prime troviamo le architetture universali della Natura incarnate da insetti dall’impressionante, perfetta struttura anatomica. Sono una femmina e un maschio: caratterizzati per generi, opposti e anche giustapposti. Una volta evidenziatene le linee portanti, essenzializzate, sovrapposte, divenuti da due forme a una integrata, si dà origine a un assoluto e – ci confermano Andrea e Matteo –“dunque non ha più senso determinarne il genere.”. La loro conformazione è riassunta in strutture geometriche che creano estensioni altre, capaci di fare intravedere analogie tra spazialità: della Natura, ma anche dell’Uomo e delle sue compagini architettoniche, sociali e intellettuali. Ancora una volta, si affianca a tale riflessione la consapevolezza dell’importanza che forma e contenuto coincidano. Petrucci ce lo mostra rendendo anche i buchi che non solo simbolicamente questi voraci insetti fanno erodendo materiali come carta e legno, e forse anche l’altro da sé – come fa la mantide religiosa, che divora il maschio alla fine dell’amplesso, una volta raggiunto lo scopo preordinato dalla (sua) Natura -, per esempio. Alla fine del percorso, restano solo i fori, assenza di spazio e creazione di ulteriore spazio, quello dall’altra parte…

LORENZO SCOTTO DI LUZIO, con l’umorismo malinconico che contraddistingue il suo poliedrico lavoro, scherza con i santi – con Lo Savio – senza paura alcuna, confermando a suo modo l’efficacia di un elogio e di una restituzione della leggerezza di calviniana memoria. Porta questo bagaglio tutto suo, piegato losavianamente, nel campo dell’ironia e del cinetismo caricati di intrigante senso poetico. Così, vediamo scatole dove Ferri e Filtri si muovono, ronzano, meccanicamente lentamente respirano… Ci sentiamo all’inizio osservatori poi complici di questo gioco serio: fuori e poi dentro, esterno e interno, concavo e convesso, fermo e in movimento, vuoto e pieno, “l’essere spaziale e l’essere oggettivo” (Musil), emotività e razionalità… Al termine di questo percorso nel lavoro di Di Luzio vs Lo Savio possiamo sederci al centro del tappeto ideato da Lorenzo, fatto di più pezzi di stoffa tagliata geometrica e sovrapposta a ricreare un grande Filtro losaviano, pensando che sì, è possibile “illuminarsi d’immenso”, a qualsiasi ora del giorno e della notte, in questa dimora che è insieme dell’uomo e dell’arte. E forse di altro ancora…

CHIARA MU che, ci ricordano Bizzarro e Boetti, “si definisce una Time-Based Artist  che abita in modo specifico spazi e tematiche”, ha agito testi e input direttamente connessi a Lo Savio tramite Apparato di Cattura: coinvolgenti, a tratti commoventi performances relazionali; sono, infatti, attivate solo se e quando un fruitore decide di partecipare a questa inizialmente misteriosa proposta aperta, ovvero che si carica di (altro) senso e si modifica grazie alla specifica risposta di chi effettua con Chiara questa sua regia avventurosa nel territorio dell’arte. Non è così distante, la temperatura di quest’oper/azione dall’idea di Lo Savio che dava valore all’esperienza dove la forma doveva poter essere sia estetica, tangibile, sia sociale, connettendo artista e società cheanche i futuristi, a modo loro, cercavano nella loro fusione della vita nell’arte. Pure questo è un distillato di italianità che la mostra da Bibo’s Place sembra indicarci… Chiara, si diceva:  ci porta per mano, letteralmente, nel nostro buio sia della vista, poiché si avanza bendati, sia di un’interiorità che cerca concentrazione, accordo – pure losaviano – tra interno ed esterno. Si ascolta attraverso cuffie, in questo infrequente nirvana, un fine dicitore (Boetti, Matteo) che, con una lettura roca ed empatica di uno scritto su Lo Savio, di Lo Savio, di uno stralcio di lettera, di un brano diverso ad ogni registrazione, in cui narrazione più intima e narrazione storica si accavallano, scandisce il ritmo e il tempo del procedere scelto da Chiara Mu. L’artista conduce un fruitore alla volta verso un’opera di Lo Savio e chi a lei si affida è stimolato, mosso, piegato, toccato, scosso a seconda del racconto in auricolare e del lavoro di Lo Savio davanti a cui, finita la recitazione e l’interazione con la performer, si resta in silenzio: la benda si toglie, cade e è del poeta il fin la meraviglia.

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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